Il mancato quorum al referendum non è un fallimento dell'attivismo online
Ovvero: il punto è non confondere il mezzo con il fine
Ciao, intanto ti ricordo che è uscito il mio secondo libro, che ha lo stesso titolo della newsletter. Lo trovi un po’ ovunque, librerie fisiche o online: ti lascio un link per ordinarlo, se vuoi. Questo numero di Turisti della realtà parla del referendum dell’8 e 9 giugno, del cui risultato molte persone hanno dato la colpa alla vacuità dell’attivismo online. Ecco, mi sembra non sia questo il punto: in questo pezzo provo a spiegare perché. Prima di cominciare, un promemoria: se vuoi ricevere i prossimi numeri direttamente via mail, puoi iscriverti cliccando il pulsante qui sotto.
Non ho particolare simpatia per quelli che qualcuno definisce influ-attivisti. Non amo quel genere di linguaggio, prima di tutto, poi considero quasi impossibile risolvere quel dilemma dell’onestà intellettuale. Cioè, in un sistema in cui ogni cosa ha un prezzo, un valore economico diretto, come faccio a capire se quello che mi stai dicendo è sincero?
Non si può fare e basta. Eppure, mi sembra che molte delle persone impegnate in questo genere di attivismo online facciano fatica ad abitare questa contraddizione. Che si prendano - a volte perché è necessario farlo - troppo sul serio, che finiscano col mischiare un po’ i piani di un orizzonte che non può, se uno vuole davvero avere un qualche genere di effetto, essere individuale, ma sempre e comunque collettivo.
Premessa necessaria per introdurre un tema complesso, forse controintuitivo, ma estremamente importante alla luce di quanto accaduto con il mancato raggiungimento del quorum al referendum dell’8-9 giugno.
Partiamo da chi mi sta ancor meno simpatico degli influ-attivisti. Ed è chi lucra sul disagio, cioè chi ha costruito un’intera carriera e credibilità politica tagliando la realtà, trasformando in intrattenimento l’esclusione.
Massimiliano Zossolo, che è la mente dietro Welcome to favelas, ha pubblicato all’indomani del risultato del referendum un carosello intitolato “Ininfluenti”. Come si può intuire dal titolo, il contenuto parla dello scarso impatto che hanno avuto attivisti e attiviste digitali sull’esito del referendum. Scrive:
I like non sono voti, e nemmeno con sforzi massicci riescono a diventarlo. Ma questa, forse, non è nemmeno una cattiva notizia. Tutti i partiti dovranno prenderne atto e tornare a una comunicazione più seria, evitando di scimmiottare i linguaggi dei TikToker, perché semplicemente non funziona. Questi personaggi parlano quasi sempre solo alla propria bolla sociale, e raramente riescono a farsi ascoltare al di fuori di essa. Anzi, spesso ottengono l’effetto opposto: radicalizzare chi sta fuori con soliti metodi da Noi contro Voi.
Spesso tendo a non farmi influenzare dal mittente nella valutazione del messaggio. Questa volta però devo dire che è particolare che questa posizione politica arrivi proprio da quella pagina che tanto ha contribuito alla creazione di un certo clima nei confronti delle persone migranti in questo Paese. E il cui fondatore Zossolo aveva recentemente rivelato di aver incontrato alcuni rappresentanti europei di Elon Musk per discutere della creazione di una rete di informazione indipendente in Europa.
Ed è qui che il paradosso si fa interessante.
Perché se davvero i contenuti degli attivisti e delle attiviste digitali non funzionano, restano chiusi nella bolla e anzi producono un effetto di polarizzazione inversa, allora bisognerebbe chiedersi come invece siano riusciti a funzionare, negli ultimi anni, certi altri contenuti.
Quelli, ad esempio, che in un’altra bolla mediatica hanno sdoganato la derisione come forma legittima di rappresentazione del disagio. Quelli che hanno trasformato in format narrazioni tossiche sull’illegalità, sull’immigrazione, sul degrado urbano, usando esattamente gli stessi strumenti, lo stesso ritmo, lo stesso cinismo algoritmico che oggi si rimprovera agli influencer “di sinistra”.
Perché è evidente che l’ecosistema informativo non funziona a corrente alternata. Se una campagna sui diritti civili non converte, allora nemmeno le campagne sul decoro dovrebbero funzionare. E invece funzionano. Hanno finito, nel corso degli ultimi 4-5 anni, per trasformarsi in voto popolare.
Perché?
E in effetti è singolare che chi sostiene che “la politica non si fa su Instagram o TikTok” provenga proprio da quella destra (sovranista e conservatrice) che ha investito moltissimo proprio sui media alternativi e sui social negli ultimi anni. A livello internazionale, i movimenti di destra hanno costruito passo dopo passo un vero ecosistema favorevole alle proprie idee: reti di siti web, canali YouTube, podcast, pagine social e influencer ideologicamente allineati, che insieme amplificano il messaggio bypassando i media tradizionali considerati ostili o troppo moderati.
Tutto parte dagli Stati Uniti. Studi accademici hanno mappato la nascita di un “network propagandistico” di destra che ha contribuito in modo determinante a successi politici come l’elezione di Donald Trump. Il professor Yochai Benkler dell’Harvard Kennedy Center, ad esempio, ha analizzato oltre un milione di notizie online durante la campagna USA 2015-2016 e ha rilevato che testate come Breitbart, Infowars e Daily Caller erano i nodi centrali di una rete di siti propagandistici che ha costituito il fondamento dell’ascesa di Trump.
Questa galassia mediatica parallela inizialmente è servita a catturare la base del Partito Repubblicano con messaggi radicali, per poi sostenere compattamente Trump fino alla Casa Bianca. Una volta al potere, la rete è rimasta attiva nel dettare l’agenda e difendere il presidente, sincronizzata con i canali mainstream favorevoli (ad esempio Fox News). Si è poi riattivata, con alcune differenze, per l’ultima campagna elettorale, in stretta collaborazione con la manosfera e con i podcast alla Joe Rogan.
Ciò che emerge dagli studi è che questo fenomeno non ha avuto finora un equivalente speculare a sinistra: la polarizzazione mediatica è asimmetrica. Mentre la sinistra negli USA e in Europa in parte si affida ancora a media tradizionali e a un attivismo più istituzionale, la destra ha saputo sfruttare appieno le potenzialità delle nuove tecnologie per scavalcare i gatekeeper e creare un proprio canale con l’elettorato.
Una ricerca del 2022 pubblicata su PNAS Nexus ha confermato che le fonti di news di orientamento conservatore godono di un “vantaggio” in termini di condivisioni e diffusione sui social rispetto a quelle progressiste. La stessa ricerca quantifica questa asimmetria: i post di destra ricevono sistematicamente più interazioni, segno di una base digitale più attiva e coesa nel propagare certi messaggi.
Un dato ancora più impressionante arriva da un’analisi di Media Matters del 2025 sul pubblico degli show online (podcast, streaming, video) politici negli Stati Uniti. Esaminando 320 programmi web a tema politico, l’82% del seguito totale è risultato concentrato su contenuti di destra, con circa 480,6 milioni di follower cumulati, quasi cinque volte i 104 milioni raccolti dai contenuti di sinistra. Inoltre, 9 dei 10 show politici più seguiti in rete erano di orientamento conservatore. Questo significa che la destra non solo ha creato contenuti, ma ha anche vinto la battaglia dell’attenzione online, penetrando perfino ambiti considerati “neutrali” (sport, intrattenimento, comicità) con una narrativa favorevole alle proprie idee.
L’Italia non fa eccezione a queste dinamiche. La stessa Giorgia Meloni, oggi premier, ha puntato moltissimo sui social network per costruire la propria immagine e consenso, affiancandosi in questo a figure e modalità tipiche degli influencer. Uno studio del progetto Influence Industry di Tactical Tech ha evidenziato come Meloni su TikTok abbia adottato tattiche simili a quelle di note influencer dell’alt-right anglosassone, utilizzando uno stile comunicativo informale, personale (la cosiddetta “networked intimacy”) e messaggi simbolici che normalizzano in modo sottile posizioni di destra radicale presso il grande pubblico.
Questa operazione di spostamento graduale del senso comune ha contribuito a sdoganare temi e linguaggi un tempo marginali, rendendoli accettabili e perfino attraenti per fasce di elettorato più ampie. Non stupisce che Fratelli d’Italia e la Lega abbiano, negli ultimi anni, dominato per engagement su Facebook, Instagram e Twitter (oggi X).
Forse per la prima volta, durante questa campagna referendaria a dire il vero molto poco raccontata dai media tradizionali, il campo progressista del nostro Paese ha provato a mettere in campo una strategia simile.
In concreto, la campagna digitale a sostegno del Sì ha messo in circolo una varietà di linguaggi e strumenti pensati per raggiungere pubblici differenti, in particolare quello under 30. Non si è trattato di un’unica voce o di una regia centralizzata, ma di una molteplicità di attori e formati, che hanno contribuito a costruire un discorso diffuso, spesso creativo, a tratti disordinato, ma sicuramente capillare.
Molti creator, divulgatrici e divulgatori si sono concentrati sulla spiegazione semplice e accessibile dei quesiti, adattando i contenuti alle logiche delle piattaforme. Su TikTok, Instagram e YouTube sono apparsi brevi video esplicativi realizzati da giovani professionisti, avvocati, attivisti.
Accanto a questo filone informativo, si è sviluppata una linea più pop e ironica, pensata per catturare l’attenzione e aumentare la diffusione virale. I Jackal, tra gli altri, hanno pubblicato un video satirico sul paradosso di dover indire un referendum per “aggiustare tutto”, che ha superato le 800 mila visualizzazioni in pochi giorni. Anche molti personaggi pubblici hanno scelto di esporsi, sostenendo apertamente il Sì. Alcuni hanno raccontato la loro storia, come Mahmood e Ghali, che hanno parlato dell’importanza del tema della cittadinanza per chi è nato e cresciuto in Italia da genitori stranieri.
Questa strategia ha funzionato almeno in un senso: ha acceso l’attenzione. Ha portato il referendum nel feed di milioni di persone, nonostante il silenzio quasi totale dei media tradizionali. Giornali e TV, infatti, hanno trattato l’appuntamento con freddezza, come se si trattasse di una pratica di secondo piano, inevitabilmente destinata a fallire. Ma su Instagram, su TikTok, su YouTube, il tema ha circolato. I contenuti più efficaci hanno ottenuto milioni di visualizzazioni.
Ha anche portato 14 milioni di persone alle urne, in un modo o nell’altro. Certo, non è stato sufficiente. Ma ha dimostrato che - ci piaccia o no, a me non piace molto - attirare l’attenzione su un tema è una cosa che i social media possono ancora fare, a partire dai linguaggi che le persone hanno imparato a conoscere e frequentare.
È mancato ancora qualcosa, che è però fondamentale ai fini dell’effettiva utilità di questa mobilitazione.
È forse mancata la piattaforma politica, il senso più ampio e più generale di un impegno in direzione di qualcosa. I quesiti del referendum hanno rappresentato una mobilitazione spot, sostenuta da una galassia di soggetti diversi senza un obiettivo e un orizzonte comune. È, se uno ci pensa, quello che più di ogni altra cosa la destra internazionale è riuscita a fare: alla mobilitazione online, alla costruzione di consenso, segue una proposta politica chiara, univoca, quasi parodistica nella sua semplicità.
E tuttavia, se si guarda bene, proprio l’intensità con cui molte e molti hanno aderito alla campagna referendaria dice qualcosa che non andrebbe ignorato. Dice di una fame di politica, di una fame di partecipazione, di una sete di senso che non trova più risposte nelle forme partito tradizionali né nelle ritualità istituzionali.
La stessa fame che si è vista e si continua a vedere, con una forza inedita, nella mobilitazione per la Palestina. Milioni di giovani, in tutto il mondo, sono scesi in piazza, hanno occupato università, hanno chiesto, finora tragicamente inascoltati, un impegno per fermare il genocidio.
C’è un’enorme domanda di politica, in alcuni casi addirittura favorita dalle bolle, le camere di eco create dagli algoritmi di raccomandazione. Che sono una cosa brutta, soprattutto quando ti accorgi che il mondo è molto diverso da come appare, ma sono anche un dispositivo di costruzione di interesse, di richiamo di attenzione a network che, auspicabilmente, possono diventare sempre più larghi.
Ecco, mi sembra che più di ogni altra cosa il referendum abbia mostrato i limiti di una mobilitazione senza sbocco. Ma anche una possibilità, un margine per costruire un nuovo spazio politico, che può partire dal digitale ma non può e non deve esaurirsi lì dentro.
E anche questo numero di Turisti della realtà è andato. Se vuoi ordinare il libro, puoi farlo qui. Puoi anche condividere la newsletter dal bottone qui sotto, iscriverti da quello ancora più sotto, scrivermi o seguirmi qui.
Un’analisi perfetta, costruttiva e quei riferimenti giusti che ognuno dovrebbe leggerla
Prima di tutto parto con dei banalissimi complimenti per il pezzo. <3
Uno spazio che la sinistra continua a non considerare come rilevante e che è diventato il parco giochi della destra estrema è il mondo videoludico, sia nella fruizione che nella divulgazione. Un luogo dove con il motto "fuori la politica dai videogiochi" si è fatta una guerra ai gruppi marginalizzati, ai movimenti femministi e di giustizia sociale che è stata il laboratorio per quello che ora vediamo nel nostro quotidiano politico.
Diventa fondamentale unirci e coordinarci per riportare le nostre istanze nei posti che continuiamo a ignorare <3
Scusa per lo sfoghino e ancora complimenti.
QW