I social media sono in crisi?
Ovvero, c’è una sensazione di stanchezza persistente, che mi capita sempre più di osservare in relazione al nostro rapporto con le piattaforme. Ho individuato tre direttrici di questa potenziale crisi
Ciao, questo numero di Turisti della realtà è una cosa un po’ a cavallo tra il personale e il collettivo: una sensazione di stanchezza rispetto al mio rapporto con i social network che sto provando negli ultimi mesi. Ho provato a capire se è solo un problema mio e quali potrebbero essere le cause. Prima di leggere, ti ricordo che se vuoi ricevere il prossimo numero in mail puoi iscriverti dal pulsante qui sotto.
Questa storia, almeno per me, inizia in un giorno di sole a Roma. Uno di quei giorni in cui guardi in alto e non riesci a capire come faccia il cielo di questa città a essere così diverso dagli altri.
Sono seduto al tavolino di un bar per un pranzo con un paio di persone. Non lo definirei un pranzo di lavoro: ci sono piccole cose professionali di cui dobbiamo parlare, ma c’è più che altro la voglia di fare una chiacchierata.
Uno dei due mi racconta di un momento di crisi di identità nel suo lavoro con i social media. Mi spiega che per un certo periodo di tempo ha pubblicato molto meno del solito, perché davvero non capiva a chi potesse interessare quello che aveva da dire.
“Ho una teoria - gli rispondo -. Tendo a fidarmi di chiunque mi faccia un discorso del genere. Chi ha dubbi e non è convinto fino in fondo di quello che sta facendo è una persona con cui sento di poter fare amicizia”.
Al netto della mia tendenza a rifugiarmi in scalcagnate verità assolute, però, il discorso lo approfondiamo. Mi raccontano, entrambi, della sensazione di un momento di crisi dei social media. Della necessità di trovare spazi diversi: per un po’ parliamo di quanto sarebbe bello – è un loro progetto – trovare uno spazio fisico, qui a Roma, da prendere in gestione per spostare piccole comunità dal digitale.
Condivido questa sensazione. Ho come una sensazione di fine, rispetto alla relazione mia e di alcune persone con i social media: come la percezione che qualcosa - in questo caso il nostro rapporto con questi spazi - stia cambiando.
Come se il mondo che ci sta crollando addosso, che è prodotto anche di un ecosistema sociale che questi spazi hanno contribuito a creare, ci stia conducendo verso una ricerca di alternative.
Qualche tempo fa un’altra persona che lavora con i social mi aveva detto una cosa tipo: “Hai fatto caso che tutte le persone che fanno questo lavoro stanno male?”.
Ecco, la sensazione è che questo male stia diventando sempre più difficile da accettare passivamente.
È da tanto, in realtà, che si parla di fine dei social media. Negli ultimi 2-3 anni il discorso è tornato con una certa frequenza, a partire soprattutto da una serie di evoluzioni del mezzo.
La più rilevante è una sorta di passaggio tecno-culturale: per merito – o per colpa - di TikTok, i social sono diventati soprattutto spazi costruiti intorno all’intrattenimento. Meno relazioni, più consumo passivo di contenuti.
È un’evoluzione cruciale, che per un certo tempo ci ha fatto pensare che i social network fossero finiti solo perché erano cambiati. Non è stato così: seppur diversa, quell’infrastruttura ci è sembrato potesse funzionare, pur con i suoi limiti. Perché, per dirne un paio, ha consentito a tante persone di scoprire aspetti nuovi della realtà o di trovare modalità alternative per essere informati o coinvolti politicamente, soprattutto rispetto alla copertura di quello che sta accadendo a Gaza.
Il punto è che quell’ondata di interesse mi pare si sia esaurita: a mancare, in quell’infrastruttura, è stata – ed è - la possibilità di trasformare un interesse in azione. Quello spazio che funziona per accumulo stimola l’attenzione, continuamente, ma non permette una distanza critica, un’elaborazione funzionale al cambiamento. E finisce con l’esaurire ogni cosa, ogni energia, un colpo di pollice dopo l’altro.
Ci siamo accorti, per esempio, che nonostante il nostro interesse e il nostro coinvolgimento le cose sì stavano cambiando, ma in peggio. A novembre il mondo è diventato una sorta di macabra estensione di una serie di logiche – orientate intorno all’intrattenimento e all’hacking continuo dell’attenzione – inaugurate proprio dai social media.
Ecco, il 2025, secondo una ricerca seppur parziale di Gartner, è l’anno in cui la metà degli utenti dei social conta di ridurre il proprio coinvolgimento, di interagire meno, di pubblicare meno, di guardare meno contenuti
Io credo che alla base di questa stanchezza ci siano tre prese di coscienza che possono aiutarci a costruire il futuro.
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1. I social media non sono – mai stati - il mondo
C’è un articolo pubblicato di recente dal New York Times abbastanza impressionante. Racconta, a partire da 30 tabelle, quanto sia cambiato il mondo a marzo 2020, all’inizio della pandemia.
Mostra in maniera piuttosto efficace l’abbassamento dei reati, del prezzo della benzina, del tempo passato a socializzare con gli altri. Mostra, allo stesso modo, l’aumento di una serie di attività connesse al mondo digitale, come ad esempio lo shopping online o, più in generale, la crescita del tempo trascorso in casa.
Era giusto così, lo sappiamo. Ma è come se intorno a quanto accaduto ormai cinque anni fa ci sia una sorta di rimozione collettiva per quanto riguarda la maniera in cui ha disegnato la nostra relazione con il reale nel periodo storico immediatamente successivo.
Non tutto può essere misurato; non può essere misurato, ad esempio, come il Covid abbia cambiato alla radice la nostra relazione con lo spazio digitale. Come abbia consolidato l’idea che qualunque cosa potesse essere fatta al sicuro della propria casa, senza contatto, in sicurezza totale.
Che il mondo, in altre parole, potesse essere trasformato in una serie di dati, addestrato, ridotto a un contenuto da fruire all’interno dello smartphone. È uno dei problemi alla base di questa relazione con i social media che a me pare oggi sia in crisi: l’illusione che tutto il mondo possa essere contenuto all’interno dello spazio digitale.
Oppure, per dirla ancora meglio, che non serva altro, che l’intera esperienza umana possa essere ottimizzata, in un’ossessione per il controllo e la sicurezza che non è figlia della pandemia ma che la pandemia ha sicuramente consolidato.
Non è che sia una novità, in senso stretto. È dal suo arrivo sulla terra che l’uomo, a partire dalle tecnologie che utilizza, prova ad addestrare il mondo, a renderlo più semplice, più comprensibile e prevedibile. Il punto è che i social media, in questa visione culturale, puntano alla semplificazione e all’addestramento dell’intera esperienza umana.
È uno dei punti di rottura di questo ultimo periodo: ci stiamo rendendo conto che non è possibile. E che, alla fine, all’interno di questo ecosistema non succede davvero mai nulla. Che le cose accadono da altre parti, fuori da un controllo che per un certo periodo di tempo abbiamo avuto l’illusione di poter esercitare.
2. Il gioco del tempo
La questione cruciale è che i social media – pur nascondendo la mediazione - non sono mai stati il mondo. Sono sempre stati, parafrasando un tweet di Ezra Klein, un gioco ispirato al mondo. Un gioco con regole precise, a cui devi decidere di sottostare pena l’irrilevanza, l’esclusione.
Il passaggio da un modello centrato sulle relazioni a uno sui contenuti, ha portato con sé una conseguenza piuttosto importante. L’algoritmo c’era già, anche prima: ma con i feed ‘Per te’ diventa sostanzialmente l’unico protagonista.
È questo complicatissimo sistema di intelligenza artificiale con formula segreta a guidare l’intera esperienza di vita di un numero enormemente alto di persone. A guidare strade di successo, di fallimento, di redenzione o di disagio; a organizzare, in altre parole, il modo stesso in cui ci relazioniamo al reale.
L’esperienza umana è diventata misurabile: all’interno dei social media ogni luogo, ogni esperienza, ogni personalità ha un valore direttamente proporzionale al punteggio che riceve. Del resto, perché il gioco possa funzionare deve per forza andare così. L’algoritmo, per prendere decisioni, ha bisogno di dati, di misurabilità, di riduzione della complessità.
Questo ha una conseguenza fondamentale sul valore che diamo al tempo. Che, se costantemente oggetto di valutazione, smette di essere libero. Diventa un prodotto da scambiare con l’attenzione, la validazione sociale, la costruzione di un’identità, all’interno dei social media. O ancora un prodotto in senso stretto, da vendere su un mercato letteralmente infinito.
Siamo tutti imprenditori di noi stessi, sentiamo spesso dire. Ed esserlo è facile, sembra un gioco, un hobby. Ti diverti facendo quello che ti piace fare e poi magari decidi anche di vendere qualcosa, su una piattaforma costruita per sembrare divertente, tra notifiche, stelle e misurazione costante delle performance. Il gioco nasconde la realtà: nessun momento di veglia è davvero al sicuro.
Più di ogni altra cosa, siamo tutti costantemente in un mercato delle idee, delle identità, della bellezza, esposti a una continua, costante, valutazione. In un libro che si chiama Come non fare niente, Jenny Odell parla proprio di questo tempo sottoposto a una continua valutazione, in cui anche gli hobby e la costruzione stessa dell’identità di ciascuno di noi sono sottoposti alle regole del capitalismo digitale.
In una situazione in cui ogni momento di veglia è diventato tempo per guadagnarci da vivere e in cui sottoponiamo persino quello libero a una valutazione numerica a suon di like su Facebook o Instagram, controllando senza sosta la performance del post come si seguono le azioni in borsa e verificando il continuo sviluppo del nostro brand personale, il tempo diventa una risorsa economica che non possiamo più giustificare trascorrendolo a fare “niente”. Non offre ritorni di investimento; è semplicemente troppo costoso.
Cosa succede quando non abbiamo più tempo libero? Quando ogni momento di veglia ci sembra lavoro? Il rischio è una sorta di burnout collettivo, di stanchezza perenne, costante, solo apparentemente inspiegabile.
3. Tutti famosi, nessuno famoso
L’algoritmo e il modello TikTok hanno venduto l’illusione che tutti potessero diventare rilevanti. Che bastasse seguire alcune regole – mai del tutto chiare – per guadagnare fama, notorietà, capitale sociale e relazionale.
È un’illusione e anche questo diventa sempre più evidente. La realtà è che la larga maggioranza di quello che pubblichiamo online rimane non visto, nascosto, invisibile all’algoritmo e anche alle persone a cui era destinato.
Ne scrive bene Thomas Germain su BBC, a partire da YouTube. La stragrande maggioranza dei suoi 14,8 miliardi di video è quasi invisibile: contenuti con pochissime visualizzazioni, lontani dai meccanismi di engagement e dalla logica dei creator professionisti.
Un gruppo di ricercatori dell’Università del Massachusetts Amherst, guidato da Ryan McGrady, ha costruito uno strumento per selezionare casualmente video su YouTube. I risultati ribaltano la percezione comune: il video mediano ha solo 41 visualizzazioni e, con 130 visualizzazioni, un contenuto rientra già nel terzo più popolare della piattaforma. In sostanza, la maggior parte di YouTube non viene vista da nessuno.
Succede pressoché su tutte le piattaforme. La professionalizzazione della produzione di contenuti ha portato con sé una conseguenza importante: pubblicare sulle piattaforme è diventato un investimento. Un investimento di tempo, perché non si tratta solo di scrivere due righe ma di produrre un contenuto multimediale che compete in un ecosistema gigantesco; ma anche un investimento economico, in termini ancora di tempo ma anche di strumenti funzionali alla produzione.
Questo ha finito con l’escludere la parte più spontanea del web. Quei contenuti che avevano reso i social network spazi anche con un certo romanticismo, per un certo periodo di tempo, si sono probabilmente spostati all’interno dei sistemi di messaggistica istantanea.
E gli utenti si sono trasformati, per l’80% circa, in spettatori, in fruitori passivi di contenuti.
Ora non sappiamo esattamente quale sia l’alternativa: da un lato, non possiamo - e probabilmente non dobbiamo - abbandonare questi spazi; dall’altro, è come se sentissimo il bisogno di “convertire” la nostra attenzione da qualche altra parte. Di usare i social solo come possibili spazi di apertura, per poi far accadere le cose fuori.
C’è un bel podcast prodotto da Wired che offre almeno un paio di spunti interessanti per la ristrutturazione di questa relazione.
Il primo è quello che la conduttrice, Lauren Goode, chiama modello CUE. Si tratta di un framework originale per valutare l'uso dei social media, basato su tre criteri:
Community: Uso dei social per creare connessioni significative
Utility: Utilizzo strumentale per risolvere problemi specifici
Education: Apprendimento genuino e arricchimento personale
“Una volta che ti rendi conto che non è uno strumento, non sta costruendo comunità, sta logorando la comunità, e che stai solo facendo doom scrolling', allora sei fuori dal CUE. Devi disconnetterti”, spiega Goode.
C’è poi una parte del podcast in cui un’altra delle conduttrici, Zoe Schiffer, cita Jia Tolentino, autrice del New Yorker, che propone un criterio semplice ma interessante. Parte tutto da una domanda:
“La tua vita sullo schermo ti sembra più piccola della tua vita fuori dallo schermo?”
Ristrutturare le proporzioni della vita, degli spazi e delle esperienze che abitiamo: forse è da qui che dobbiamo partire per ripensare i social media e il modo in cui modellano le nostre società.
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Chi lavora nel settore se ne è accorto da tempo, malessere a parte (che di base non è facile da collettivizzare), da un punto strettamente lavorativo se fino a poco fa i social network algoritmici ti davano una maggiore "sicurezza" in termini di ritorno economico - qual è il compito minimo della pubblicità tutta - ora sempre più persone, anche autodidatte, hanno capito, o stanno capendo, che il gioco non vale la candela. O meglio, che è la qualità della relazione che si instaura con si cerca di convogere ad essere la vera "miniera d'oro", e i social network, anche a fronte di grandi investimenti (d'energia ed economici) non sono più in grado di mantenere quella (falsa) promessa di un tempo. Piano piano la realtà non digitale sta tornando ad essere il "nuovo" social network, ma c'è una scarsa alfabetizzazione in materia relazionale, specialmente se la intendiamo in termini di "cura" e "sana". è anche vero che la necessità di incontrarsi nella realtà digitale rimane, e le alternative ci sono da tempo - tipo il Fediverso - ma obbligano a chi si avvicina a decostruire moltissimo le proprie abitudini informative. Imparare cose nuove è faticoso e non di rado doloroso. Però ecco, sotto la superficie (digitale e non), ci sono molti mondi; e la verità è che ci sono sempre stati e continueranno ad accogliere chi si vorrà lanciare nell'esplorazione.
Citando un'amico "sapere come funzionano il cambio e il volante [di un auto] ci permette di andare esattamente dove vogliamo, senza bisogno di un insondabile pilota automatico. Non serve essere meccanici per guidare una Panda, così come non serve essere hacker per godersi tutto ciò che il Fediverso ha da offrire." https://log.livellosegreto.it/kenobit/ma-il-fediverso-e-complicato
Grazie per l'articolo, anche tutti i link sono molto interessanti!