È davvero possibile uscire dai social media?
Ovvero: l'unica soluzione che abbiamo non è un'altra scelta di consumo
Ciao, questo numero di Turisti della realtà parte da un paio di storie che ho sentito ultimamente e che hanno a che fare con il tentativo - riuscito o meno - di abbandonare Spotify. Da qui, ho provato a portare avanti una riflessione sulle nostre effettive possibilità di sfuggire al mondo digitale. Prima di leggere, ti ricordo che se vuoi ricevere il prossimo numero in mail puoi iscriverti dal pulsante qui sotto.
You can do what you decide to do - but you cannot decide what you will decide to do.
Qualche tempo fa, quando stavo pensando di iniziare a lavorare al mio primo libro (c’è un indizio in questa frase, ve ne parlerò), sono partito dal concetto di libero arbitrio. L’idea che avevo era piuttosto semplice, forse ingenua: quanto siamo liberi quando una serie di algoritmi decidono per noi?
Il tema è complesso e ricordo di aver abbandonato l’aspetto neurobiologico abbastanza presto, spaventato proprio dall’incapacità di comprenderne le sfumature, le implicazioni. Ricordo però di aver letto con un certo interesse un libro che si chiama Free Will, di Sam Harris, un filosofo americano.
È un testo interessante, per quanto complicato, che parte da un assunto piuttosto netto. Il libero arbitrio è un mito e la nostra esperienza soggettiva di scegliere liberamente non corrisponde alla realtà dei fatti: la neuroscienza, scrive Harris, “dimostra che siamo dei burattini biochimici”.
In effetti, esistono studi neuroscientifici che suggeriscono che questa sensazione di totale autonomia potrebbe essere un’illusione. Già negli anni ’80 il famoso esperimento di Benjamin Libet mostrò che il cervello “decide” di agire frazioni di secondo prima che noi diventiamo coscientemente consapevoli di quella decisione. Ricerche più recenti, con tecniche di neuroimaging, hanno spinto questa scoperta oltre: osservando l’attività cerebrale è possibile predire quale opzione una persona sceglierà diversi secondi prima che la persona stessa ne sia consapevole.
In altre parole, secondo una parte della neuroscienza, il nostro cervello prende decisioni nell’ombra, anticipando la nostra volontà cosciente.
Ho pensato ancora al concetto di libero arbitrio leggendo un articolo di Adam Estes su Vox e uno, qui su Substack, di Andrea Rampoldi nella sua newsletter Musica Bella. I pezzi raccontano suppergiù la stessa cosa: un tentativo di abbandonare Spotify per recuperare una relazione con la musica.
Gli esiti degli esperimenti, però, sono diversi.
Nel caso di Estes, la decisione riguarda l’abbandono di Spotify per provare altre piattaforme. Dopo alcuni mesi, però, l’esperimento si conclude con un ritorno a casa: “l’algoritmo - scrive nel pezzo - mi ha ripreso”.
È una scelta dettata dall’affetto, si potrebbe dire: con 15 anni di dati sulle sue abitudini musicali, “lo conosce come un vecchio amico”, sa dei suoi gusti peculiari e riesce a soddisfarli come nessun concorrente. In pratica, Estes si è reso conto di aver “addestrato fin troppo bene” l’algoritmo di Spotify con anni di utilizzo, e ora quel sistema predittivo rappresenta per lui un valore aggiunto difficile da abbandonare.
In alcuni casi – conclude Estes – può andar bene lasciar “guidare” l’algoritmo, mentre in altri l’influenza diventa troppo invasiva - racconta di aver smesso di usare Instagram proprio perché sentiva l’algoritmo troppo in controllo del suo tempo e dei suoi impulsi.
L’esperienza di Rampoldi è leggermente diversa: qui, l’abbandono dello streaming è totale. Niente Spotify, niente Apple Music, niente YouTube. Si torna alla musica su supporti fisici, tra cd, walkman e stereo in casa.
L’esito è completamente diverso. Nella newsletter, Rampoldi spiega di aver ascoltato meno musica, ma con maggiore qualità. Scrive:
Ho scoperto il valore meditativo di rallentare un po', fermare il cervello e ascoltare la musica, facendo solo quello. Fare un piccolo sforzo iniziale per poi perdersi completamente dentro a un'opera d'arte è qualcosa di rarissimo di questi tempi.
Oggi, non sa ancora cosa succederà a fine esperimento.
Una cosa è certa: lo streaming resta utile, soprattutto per scoprire nuovi artisti, ma non vuole che sia più il centro dei suoi ascolti.
C’è un’altra storia da raccontare, prima di provare a fare una sintesi.
È una storia raccontata da Jocelyn Gecker su Associated Press, in un lungo reportage che esplora il caso di alcune famiglie americane che cercano, controcorrente, di tenere i figli adolescenti lontani dai social network.
Protagoniste della storia sono due ragazze: Kate Bulkeley, liceale del Connecticut, e Gabriela Durham, studentessa di un liceo artistico a Brooklyn. In entrambe le famiglie i genitori hanno imposto regole severe: niente smartphone fino alla scuola media, e social media vietati fino ai 18 anni.
All’inizio, Kate ha seguito la regola con successo e persino entusiasmo. Il suo primo anno di high school senza social è andato molto bene: ottimi voti, molti libri letti, tanta interazione familiare. Col tempo però sono emersi alcuni problemi in questa scelta: all’inizio del secondo anno Kate ha iniziato a sentirsi esclusa da certi circuiti informativi e sociali della scuola. Si è persa una riunione del consiglio studentesco perché l’annuncio era stato dato su Snapchat; ha avuto difficoltà con le comunicazioni del club di Model U.N., che avvenivano via social; perfino il gruppo di studio biblico del suo liceo usava Instagram per aggiornare i membri.
In breve, vivere da adolescente offline in un mondo in cui tutti i coetanei coordinano attività e amicizie sui social si è rivelato più difficile del previsto, un costante adattamento a logiche altre.
Gabriela, l’altra ragazza, racconta un’esperienza simile: è riuscita a mantenersi totalmente fuori dai social per tutte le superiori ed è diventata quella che in modo un po’ pigro si potrebbe definire un’alunna modello. Tuttavia, ammette che l’assenza dai social l’ha resa un po’ un’outsider nel suo ambiente: da più piccola ci soffriva, ora a 18 anni lo vive quasi come un badge of honor – un elemento distintivo di cui andare fiera. Sia Kate che Gabriela riconoscono dei vantaggi nell’essere fuori dai social (meno distrazioni, meno drammi online, meno omologazione).
D’altro canto, le difficoltà pratiche ed emotive non mancano: “quando è ovunque, è difficile evitarlo” – dice Gabriela, riferendosi ai social. In metropolitana, a scuola, a danza, tutti intorno a lei parlano di qualcosa che ha visto su Instagram o TikTok, condividono meme e balletti virali, mentre lei a volte resta tagliata fuori dalla conversazione.
L’ambiente, il mondo – la scuola, gli amici, la società nel suo insieme – è strutturato in modo da dare per scontata la presenza dei social: star fuori è possibile, ma è faticoso e richiede di trovare aggiustamenti continui (come farsi mandare via SMS le comunicazioni che gli altri ricevono su Snapchat).
È un mondo costruito intorno alle regole imposte dalle piattaforme digitali. Dentro o fuori, insomma, finisce col cambiare poco: quello che viviamo è figlio di una mediazione, di uno spazio di rappresentazione creato un po’ di anni fa da una manciata di aziende.
E tu puoi partecipare e non partecipare: non è detto che questo cambi qualcosa, in concreto.
In un articolo pubblicato sul suo Medium, l’analista dei media Doug Shapiro parla di una questione ormai piuttosto dibattuta: il peggioramento, negli ultimi anni, della qualità media dei prodotti di cultura popolare.
Non è una novità, dicevo: in un libro che si chiama Filterwold, Kyle Chayka parla di un appiattimento generale della cultura, causato dal modo in cui accediamo al mondo. Gli algoritmi, i dati, i trend, finiscono col condizionare le estetiche, i gusti culturali, per causare “un appiattimento pervasivo”. “I prodotti culturali meno ambigui, meno dirompenti e forse meno significativi sono quelli promossi di più”, scrive ancora il giornalista del New Yorker.
Shapiro la mette in un modo leggermente diverso: parla di un cambiamento radicale nei gusti del pubblico. Sempre più utenti, spiega, dedicano tempo a contenuti che un tempo avremmo definito amatoriali, dal basso, anche se questi spesso non soddisfano i tradizionali standard di qualità (sono “low-fi”, grezzi, poco curati).
In altre parole, è la definizione stessa di “qualità” a star cambiando: molte persone preferiscono contenuti che qualche anno fa sarebbero stati considerati “spazzatura”, purché rispondano a qualcos’altro che li attrae.
È l’industria dell’autenticità, quell’estetica letteralista costruita all’interno dei social media che diventa senso comune. Vale per ogni cosa: logiche costruite all’interno delle piattaforme digitali diventano quelle attraverso cui ragioniamo, tramite le quali scegliamo le lenti con cui vedere il mondo.
C’è un libro di un filosofo inglese, Isaiah Berlin, pubblicato nel 1958, che si chiama Libertà.
È il primo a proporre la distinzione tra due tipi diversi di libertà: quella negativa e quella positiva.
La prima è semplice, quasi intuitiva: essere liberi significa non avere ostacoli. Nessuno mi vieta di parlare, di muovermi, di spegnere il telefono o cancellare un account. È la libertà come assenza di vincoli esterni.
La seconda, invece, è più esigente: essere liberi significa avere il potere effettivo di realizzare qualcosa. Significa, in altre parole, non solo poter uscire da una stanza, ma sapere dove andare una volta fuori.
È la libertà come possibilità reale, come accesso, come orizzonte di senso.
Nel mondo delle piattaforme digitali, questa distinzione diventa cruciale. Perché sulla carta siamo tutti liberi: nessuno ci obbliga a usare Instagram, o a restare su Spotify. Eppure, quel mondo, quello che proviamo ad abitare fuori dalle piattaforme, è un prodotto di quelle stesse piattaforme da cui stiamo provando a fuggire.
È il dentro ad aver riscritto il fuori.
Torniamo all’esempio della musica, a Spotify. Perché la piattaforma svedese non è solo un distributore di nuove canzoni, un suggeritore di artisti e generi diverse. È, più di ogni altra cosa, un’infrastruttura che condiziona le modalità stesse di produzione di musica e nuovi artisti.
Basta un dato: rispetto al 2000, le canzoni durano in media 30 secondi in meno. La percentuale di completamento di una canzone, del resto, è una delle caratteristiche alla base del suggerimento degli algoritmi delle piattaforme di streaming. E non solo: è anche la quota minima perché un ascolto si possa considerare tale, anche in termini di ricavi.
Questo vuol dire che più la canzone è corta e coinvolgente fin dall'inizio, più le persone l'ascoltano tutta. E quindi più alte sono le probabilità che questa venga suggerita ad altri utenti oppure inserita in qualche playlist. Oppure, che frutti un guadagno all'artista.
In senso più ampio, lo streaming inserisce un coefficiente di misurabilità: i dati riguardano ogni interazione con la musica, dall’aumento del volume al completamento a quante riproduzioni di quel brano vengono effettuate in un giorno. Si tratta di numeri molto interessanti per i produttori che, però, possono portare a un processo di omologazione: se ho dati precisi su quello che funziona, tendo a rischiare molto meno, ripetendo costantemente la formula che funziona.
Sei dentro, sei fuori, cambia poco: il processo di produzione di musica, le canzoni che escono, quelle che ascolti in radio, sono prodotto di logiche e regole precise.
Esattamente quelle da cui stai cercando di fuggire.
Un’ultima nota, prima di concludere.
C'è un bel pezzo sul New York Times che parla di Light Phone III, un cosiddetto dumb-phone, uno di quei telefoni che possono più che altro fare chiamate, poco altro.
Sono dispositivi molto di nicchia, ma che raggiungono con una certa costanza un buon successo mediatico. In fondo, sono l'antidoto perfetto, in termini di racconto, all'overload informativo, alla dipendenza da smartphone, ai social media che si stanno mangiando il mondo. Per salvarsi, basta solo cambiare prodotto, fare una scelta di consumo solo un po’ differente.
Mi ha colpito, più di ogni altra cosa, la chiusa di questa recensione firmata da Brian X. Chen:
Pur ammirando l'intento del Light Phone, la mia esperienza mi ha insegnato che non esiste nulla che possiamo davvero fare o acquistare per riportarci a tempi più semplici.
Non esiste scelta di consumo, alternativa sostenibile, decisione individuale, per uscire da questo mondo che le piattaforme digitali contribuiscono a costruire.
In un libro che si chiama Un oscuro scrutare, Philip K. Dick racconta la storia di Bob Arctor, un agente della narcotici che lavora sotto copertura in una California del futuro, devastata dall’uso di una droga chiamata Sostanza M. Per infiltrarsi in un giro di spacciatori e tossicodipendenti, Arctor comincia a farne uso lui stesso, finendo però per sviluppare una dipendenza e una progressiva dissociazione mentale.
La Sostanza M agisce sul cervello, provoca una scissione tra i due emisferi: chi la assume perde il senso della propria identità, fino al punto che Arctor non riesce più a distinguere tra sé e il personaggio che sta interpretando. La sua vita si spezza in due. Da un lato è un tossico tra tossici, dall’altro è l’agente incaricato di sorvegliare quello stesso ambiente - e, attraverso un sistema di telecamere, arriva letteralmente a spiare se stesso.
C’è una nota, alla fine del libro, in cui l’autore parla dell’abuso di droga, una sorta di morale molto poco giudicante della vicenda raccontata, tra l’altro ispirata a storie realmente accadute. Scrive Dick:
L’abuso di droga non è una malattia, è una decisione, come quella di sbucare davanti a un’auto in corsa. Questa non la si definirebbe una malattia ma un errore di valutazione. Quando un certo errore comincia a essere commesso da un bel po’ di persone, allora diviene un errore sociale, uno stile di vita. E in questo particolare stile di vita il motto è: ‘Sii felice oggi perché domani morirai’; ma s’incomincia a morire ben presto e la felicità è solo un ricordo. In definitiva, allora, l’abuso di droga è soltanto un’accelerazione, un’intensificazione dell’ordinaria esistenza di ciascun uomo. Non è differente dal tuo stile di vita, è semplicemente più veloce.
Ora, usare lo smartphone non è abusare di stupefacenti. Ma la nota finale a Un oscuro scrutare mi ha sempre affascinato per questa capacità di inquadrare la trasformazione di singole scelte individuali in un errore sociale, che riguarda chiunque.
In questo senso, viviamo in un ambiente che siamo finiti col considerare normale, l’unico possibile.
Un sistema di decisioni, scorciatoie, automatismi che si sono accumulati nel tempo fino a diventare l’unico scenario disponibile. E allora anche le soluzioni smettono di sembrare scelte: si trasformano in varianti dello stesso paesaggio. Un telefono meno smart, un’app diversa, un giorno, un mese, un anno fuori dai social. Un gesto individuale che ricalca lo stesso perimetro, con un’altra interfaccia.
Ma se l’errore è collettivo, se si è sedimentato fino a diventare stile di vita, allora non si tratta più di correggere un comportamento. Si tratta di riconoscere il sistema che lo genera. Di capire, magari in ritardo, che non stiamo semplicemente facendo qualcosa - stiamo abitando qualcosa.
E da lì, forse, si può cominciare a pensare una via d’uscita che non sia solo un’altra scelta di consumo.
E anche questo numero di Turisti della realtà è andato. Fammi sapere se ti è piaciuto, se ti va. Puoi anche condividere la newsletter dal bottone qui sotto, iscriverti da quello ancora più sotto, scrivermi o seguirmi qui.
Io sono "il boomer" che cerca di orientarsi, tu sei l'amico giovane, che con la torcia in mano in un sentiero oscuro cerca di individuare illuminando la strada dicendomi: "non so forse è di qua, mi sembra di ricordare, non so, proviamo..." Io che la strada non la conosco proprio appoggio la mia mano sulla tua spalla e dico: "d'accordo proviamo per di qua potrebbe essere la strada giusta..."
Grazie. Finalmente leggo un'analisi onesta e non il solito contenuto acchiappaclick perché va di moda parlare dell'uscire dai social...