Donald Trump è Papa Meme I
Ovvero: la religione della Casa Bianca è una cinica ironia postmoderna
Ciao, questo numero di Turisti della realtà arriva in un momento molto bello e impegnativo per me, dal punto di vista personale. Scrivere questo articolo è stato anche un modo per distrarmi, per ritrovare un pezzo di chi sono, nella frenesia di questi giorni. Parla di Trump e dell’uso di meme e format come dispositivo politico. Prima di leggere, ti ricordo che se vuoi ricevere il prossimo numero in mail puoi iscriverti dal pulsante qui sotto.
Sono piuttosto stanco, in questo periodo.
E frequento molto, per ragioni soprattutto personali, tutti quei contenuti digitali che hanno a che fare con rumori bianchi, canzoni rilassanti, con suoni di sottofondo che hanno l’obiettivo principale di calmarci.
Ecco, uno di recente ha catturato la mia attenzione. Lo ha pubblicato su X il profilo ufficiale della Casa Bianca. Si chiama Lo-fi MAGA Video to Relax/Study To 🇺🇸. Sullo schermo diviso in due, da un lato un cartone animato che raffigura il Presidente degli USA Trump impegnato a firmare - senza scrivere davvero, come si fa nelle animazioni - un decreto dopo l’altro. Dall’altro un elenco, su sfondo bianco, scorre un po’ come nei teleprompter: sono tutte le promesse che lo stesso Trump avrebbe mantenuto, dall’inizio del suo mandato.
In pratica, la Casa Bianca mette online la sua versione del celebre meme “lofi hip hop radio – beats to relax/study to”, icona musicale delle playlist per studenti, simbolo involontario di una generazione che cerca quiete in un mondo accelerato, e la riempie di contenuti propagandistici.
Il risultato è un flusso rilassante per indottrinarsi dolcemente. Resta online per tutto il weekend, accumula milioni di visualizzazioni e produce quel tipo di dissonanza che solo la politica contemporanea sa generare: un’estetica da cameretta che diventa discorso dominante.
È parte una di strategia, spiega il Washington Post, per raccontare i traguardi dei primi 100 giorni, tra interviste con influencer MAGA e briefing dedicati a giornalisti vicini alle posizioni del Presidente.
Qualcuno titola, parlando del video: “Make America Relax Again”.
È passato un po’ in secondo piano questo video piuttosto bizzarro. Del resto, nelle stesse ore, ancora l’account ufficiale della Casa Bianca pubblicava un’immagine di Donald Trump vestito da Papa, generata con l’intelligenza artificiale.
La storia è piuttosto nota: Trump, scherzando in un comizio, aveva detto che “diventare Papa sarebbe la sua prima scelta”, se solo avesse potuto. Qualcuno del suo staff ha preso alla lettera la battuta, confezionando il meme. L’immagine con Trump serafico in trono papale è stata postata sui profili ufficiali a pochi giorni dall’inizio del Conclave.
Sembra passata una vita, ma non è la prima volta che Trump sceglie di rappresentarsi con un’iconografia che ricorda un qualche genere di potere assoluto. Nel febbraio 2025, gli account ufficiali presidenziali avevano fatto discutere il mondo condividendo un’immagine di Trump con corona e mantello regale. “CONGESTION PRICING IS DEAD. Manhattan, and all of New York, is SAVED. LONG LIVE THE KING!” proclamava un post sull’account @WhiteHouse.
La grafica allegata era una finta copertina di Time Magazine che incoronava Trump come re, con il tycoon insolitamente affusolato e raggiante sotto un diadema d’oro. In alto, al posto della testata TIME, campeggiava il nome di TRUMP; nell’angolo spiccava nuovamente la frase “Long live the King” .
Il pretesto ufficiale era l’annuncio (propagandistico) di aver affossato il piano di congestion charge a New York voluto dai democratici – presentato come una vittoria epocale. Ma l’attenzione generale si concentrò sul messaggio implicito: la Casa Bianca stava promuovendo il presidente come un monarca.
Al netto del contenuto, che in questo caso è la forma stessa, si trattava più di ogni altra cosa di una dichiarazione di intenti: una sorta di auto-incoronazione memetica. Da quel momento in poi, la figura di Trump viene plasmata come creta, travestita ora da re, ora da Papa, ora da eroe dei fumetti, a seconda della narrativa che si vuole spingere o del nemico che si vuole colpire.
E il re dei meme Trump chiama una sorta di corte memetica.
Sono gli account ufficiali della Casa Bianca, sempre più spazi che puntano ad allargare il più possibile i confini di quello che può essere detto e del modo in cui qualunque tema può essere trattato.
Da un punto di vista della comunicazione digitale, la strategia ha anche senso. Lo staff di Trump segue con attenzione i trend, analizza la cultura digitale e tira fuori format, linguaggi, provocazioni. E lo fa senza filtri, senza vere e proprie regole: conta il come, il cosa è solo un effetto collaterale. In questo senso, meme va inteso in senso ampio: è meme qualunque contenuto digitale, qualunque estetica che possa essere risemantizzata.
Lo aveva già fatto con il video ASMR: Illegal Alien Deportation Flight, dove si sentono le manette tintinnare e i passi metallici su un jet mentre funzionari preparano l’espulsione di migranti. Estetica da video rilassante, applicata a una scena di deportazione. Un cortocircuito narrativo, pensato per far indignare quanto per far ridere. Funziona, in qualche modo: milioni di visualizzazioni, polemiche, shock anche dentro la community ASMR. L’obiettivo non era spiegare una policy, ma spingere nel feed qualcosa che stesse in piedi da solo: disturbante, virale, inequivocabilmente trumpiano.
Pochi giorni dopo, arriva la Gaza turistica generata dall’IA: grattacieli, mare turchese, una statua gigante di Trump al centro, lui in costume accanto a Netanyahu, musica dance di sottofondo. L’idea (presa da una dichiarazione reale: “faremo di Gaza la nuova Riviera”) diventa cartolina digitale da un mondo che non esiste. La guerra, fuori campo. La carne, evaporata. Anche qui: reazioni, click, ricondivisioni.
Poi, molti meme dopo, tocca al gorilla. La Casa Bianca di Trump si appropria di una discussione virale assurda - “100 uomini possono battere un gorilla?” - e la trasforma in propaganda per la sua politica migratoria.
“142mila clandestini criminali hanno affrontato 1 presidente Trump, tutti deportati”, recita il post ufficiale della Casa Bianca. Il meme è quasi rozzo, ma la formula è chiara: l’eroe solo contro la massa, l’iperbole digitale come strumento di egemonia. L’oggetto del post è secondario.
L’importante è che tutti lo vedano, e che lo stile, più ancora del contenuto, dica una cosa sola: questa è la nuova estetica del potere.
Non è nuova in sé, la questione. Da sempre la politica è estetica; da un centinaio di anni la politica è un’estetica costruita dai media. E oggi quello che fino a qualche anno fa era cultura alternativa, figlia di spazi digitali più o meno frequentati, è cultura di massa a tutti gli effetti.
Eppure, c’è qualcosa di diverso, di più netto. C’è un abbandono totale al format, alla costruzione continua di significati contraddittori, a volte anche complessi da processare. La presidenza Trump in questo senso è una sorta di laboratorio avanzato di ironia postmoderna, dove il meme non è solo ornamento retorico, ma struttura portante del discorso pubblico.
Non serve più convincere, articolare, dimostrare: basta postare.
Come dicevo, è una condizione figlia di un’evoluzione mediale profonda, che ha mutato il nostro modo di pensare ancora prima di cambiare il modo in cui comunichiamo.
Lo cito spesso, ma è utile farlo: in Divertirsi da morire, Neil Postman descrive questo passaggio con chiarezza. Parla del passaggio dalla centralità della parola scritta alla supremazia dell’immagine; dal cervello tipografico, analitico e astratto, al cervello spettacolare, immediato, visivo, frammentario. Il risultato è che oggi ciò che è rappresentabile, semplificabile e viralizzabile non è solo più accessibile: è anche più vero, o meglio, più credibile.
“Ogni mezzo ha risonanza”, scrive Postman, “perché la risonanza è la metafora per eccellenza”. Se il mezzo dominante è l’immagine-meme, allora è il meme a diventare la nuova forma del discorso pubblico. E nel meme, il linguaggio razionale non ha spazio: vince ciò che colpisce, non ciò che argomenta.
È in questo contesto che la presidenza Trump costruisce un nuovo lessico del potere, fondato sull’estetica prima della verità, sulla performance prima della coerenza. Il meme funziona come dispositivo di immunizzazione: deforma, esaspera, anticipa la critica e la disarma. Trump può mostrarsi in posa da imperatore, da lottatore WWE o da icona sacra pop, perché ha già rovesciato il paradigma della credibilità: non è più vero ciò che è misurabile, ma ciò che genera risonanza. Non si cerca legittimità nel contenuto, ma nel formato. E il meme è il formato perfetto perché non spiega: dichiara, al massimo evoca.
La sua forza non sta in ciò che dice, nel contenuto, ma nell’adesione identitaria che produce.
E qui emerge una frattura culturale decisiva: quella che si può definire, con Ryan Milner e Angela Nagle in un pezzo comparso a gennaio 2024 sul New Yorker, asimmetria memetica. I codici della destra, binari, assertivi, riduzionisti, sono perfetti per il linguaggio del meme. La destra comunica per slogan, frame, narrazioni-immagine. Il meme non è una battuta: è una microdottrina. La sinistra, più legata alla complessità e al linguaggio argomentativo, resta fuori tempo. Non riesce a competere in un ecosistema in cui non conta più avere ragione, ma essere riconoscibili a colpo d’occhio.
Il punto finale, che Postman anticipava già nel 1985, è questo: la verità non è più una costruzione discorsiva, ma un effetto estetico. Se sta bene nel feed, allora può aspirare a sembrare vera, può aspirare a costruire una realtà, una bespoke reality, dice un bel libro di Renée DiResta uscito lo scorso anno. Se non funziona, è irrilevante.
La Casa Bianca trumpiana è interprete cinica, spietata, di questa logica: produce contenuti come se fosse una pagina Instagram, sfrutta trend, suoni, loop, e traduce ogni decisione politica in meme-ready content. Forse non si tratta più nemmeno di comunicare: si tratta di frequentare il linguaggio dominante, quello dell’algoritmo e dell’emozione.
E se, come dice Postman, ogni mezzo porta con sé una sua idea implicita di verità, allora il meme è la verità.
E questo, in fondo, è il volto politico di un sistema che chiamo capitalismo dell’attenzione, in cui l’unica vera merce è la capacità di catturare qualche secondo della nostra disastrata attenzione.
Quella di Trump non è solo una strategia social: è infrastruttura cognitiva e modello operativo. È lì che si gioca il potere: nella capacità di saturare l’immaginario (ne aveva parlato uno sfuggente filosofo immaginario, Jianwei Xun), prima ancora che di orientarlo. Ogni gesto, ogni dichiarazione, ogni atto simbolico viene pensato per entrare nel flusso, per diventare contenuto, essere guardato, generare una reazione. Se non produce engagement, è come se non fosse mai accaduto.
La Casa Bianca trumpiana, con i suoi meme istituzionali, le clip ASMR delle deportazioni, i deepfake satirici ricondivisi senza filtri, non è un’anomalia. È un prodotto logico di un ambiente dove ogni elemento deve avere forma memetica per accedere alla sfera pubblica. Il meme è la lingua franca del presente: riduce la complessità, disattiva il confronto, trasforma il conflitto in immagine. Ma soprattutto, immunizza. Chi parla già in forma di parodia si rende inattaccabile. Non si può criticare efficacemente ciò che è stato già detto come battuta. Il contenuto non scompare, ma si svuota - resta la forma, il frame, la posa.
Tutto questo non riguarda solo la comunicazione politica. Riguarda la forma stessa della cultura che abitiamo. In un ecosistema in cui ogni soggetto - individuo, azienda, istituzione, causa - compete per lo stesso oggetto scarso, l’attenzione, diventa inevitabile una trasformazione sistemica. Non conta cosa fai, ma come riesci a rappresentarlo. L’arte, la cultura, l’informazione, persino l’attivismo devono essere progettati per performare bene nei formati dominanti. Non per dire la verità, ma per ottenere visibilità.
Il capitalismo dell’attenzione non è solo l’evoluzione dell’economia dell’informazione. È un cambio di paradigma antropologico.
È il passaggio da un mondo dove le idee cercavano spazio, a un mondo dove lo spazio - il feed, lo stream, il trend - determina quali idee possono esistere.
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Illuminante come sempre, grazie !