Vivere nella società dell’impazienza
Ovvero: breve storia di una battaglia (persa) per mantenere la nostra attenzione. O meglio, per salvaguardare la nostra capacità di capire cosa vogliamo davvero
Ciao, questo numero di Turisti della realtà parte da una storia personale, che mi pare di aver capito riguardi molte persone, non solo della mia età. È una storia che ha a che fare con la distrazione e le continue sollecitazioni che riceviamo dall’ecosistema digitale in cui siamo immersi e immerse. Prima di leggere, ti ricordo che se vuoi ricevere il prossimo numero in mail puoi iscriverti dal pulsante qui sotto.
Combatto una battaglia quotidiana con la mia impazienza.
Con la mia tendenza a distrarmi, a interrompere, a procrastinare. A volte inizio qualcosa, poi mi dimentico quello che avevo iniziato a fare, perché un nuovo stimolo mi ha portato completamente da un’altra parte.
Questo continuo vagare da una parte all’altra mi stanca, mi innervosisce a volte. Eppure, tengo sempre accanto una delle cause principali della mia impazienza. È lo smartphone la cosa che cerco quando, anche solo per un momento, sento di non avere un nuovo stimolo, qualcosa di diverso a cui prestare attenzione.
Cerco la mia impazienza, la coltivo.
A volte provo a combattere questa condizione. Ci sono mattine e sere in cui mi impongo di non toccarlo, lo smartphone. Di metterlo da parte. Ci sono tentativi velleitari di separare gli ambiti, di analizzare gli usi.
Perché utilizzo quel rettangolino nero? Per informarmi, mi dico. Ok, allora puoi avere un tablet non collegato a Internet dedicato solo a quello. Per intrattenermi, continuo. Bene, la soluzione è leggere o guardare una serie tenendo lo smartphone a distanza, incapace di esercitare quella abbastanza incomprensibile forza magnetica.
Ci sono momenti, non lo nego, in cui ci riesco.
La maggior parte delle volte, però, cedo. Non ho la forza di combattere.
Ci ho pensato spesso, di recente. E ci ho pensato perché mi sono imbattuto in una frase . Una di quelle robe anonime che ti può capitare di trovare su Internet. Uno screenshot, sfondo nero e testo bianco, che circola slegato dall’autore, dal contesto, dalla situazione in cui era stato immaginato.
L’ho ritrovato, alla fine: è un testo comparso per la prima volta su Tumblr. Eccolo, tradotto.
Non ti rendi conto di quanto sia grave, finché non inizi a notare che l’impazienza è diventata la moneta corrente. Guardare un film intero di due ore, dal divano di casa, sembra una tortura. Persino un episodio da venticinque minuti ti appare interminabile. Non riesci a stare fermo nemmeno alla fermata dell’autobus senza tirare fuori il telefono e aprire un’app qualsiasi - anche solo per controllare il meteo per la milionesima volta nella stessa giornata.
Perfino le conversazioni cominciano a sembrarti troppo lunghe. E se ti guardi intorno, inizi a raccogliere storie assurde: gente che salta interi paragrafi mentre legge un libro, perché trova noiose le descrizioni, o perché sente di dover correre - per raggiungere un obiettivo di lettura, per finire, semplicemente.
Ora, se c’è una cosa che caratterizza questo periodo storico che stiamo vivendo è la sovrabbondanza di definizioni. Analizziamo, parliamo, colleghiamo, definiamo: gli spazi di diffusione sono tanti e io stesso, più volte, ho provato a tirar fuori delle formule per provare a capire questo tempo frammentato.
Che poi, se uno ci pensa, è una pratica che aggiunge frammentazione alla frammentazione: formula dopo formula, ci sembra di capire qualcosa in più. Ma il mondo ci sfugge, proprio nel momento in cui abbiamo la sensazione di capirlo.
Eppure, qui c’è qualcosa. Una sensazione latente, che credo accomuni chiunque abiti questo ecosistema.
Potremmo chiamarla (eccomi, non perdo il vizio): società dell’impazienza.
«Cado nei rabbit hole di YouTube. Spesso. Nuovi software per scrivere musica, cose sulla salute, tecnologia, quel genere di roba.»
È così che spiega il fatto di non aver pubblicato un album da quindici anni.
«In un certo senso, ne divento vittima. Ma è la vita», dice ridendo.
Di recente, Herbie Hancock, uno dei più grandi musicisti jazz di sempre, ha rilasciato un’intervista alla BBC. Nell’attacco dell’articolo, confessa di non riuscire più a scrivere musica perché troppo distratto da YouTube. Ha detto una cosa simile Gue Pequeno, in una delle ultime puntate di Tintoria, una cosa tipo: "Non installo TikTok perché se no passerei tutto il giorno lì dentro".
Ecco, non è la prima volta che qualcuno mi dice una cosa simile. Un amico, di recente, mi ha confessato che vorrebbe fare il suo lavoro in un modo migliore da come lo fa. Ma non ci riesce. È troppo distratto e, in fondo, forse nemmeno ne vale la pena.
In un libro che si chiama The Sirens’ Call: How Attention Became the World’s Most Endangered Resource, il giornalista americano Chris Hayes cita un esperimento dell’Università della Virginia del 2014.
Lo studio è piuttosto semplice, nella struttura: l’obiettivo è capire quanto sia difficile, per le persone, stare semplicemente da sole con i propri pensieri. Ai partecipanti veniva chiesto di restare tra i sei e i quindici minuti in una stanza, senza telefono, computer o libri. Il 60% ha detto di aver fatto fatica, e quasi la metà ha trovato l’esperienza sgradevole.
In uno studio successivo, i ricercatori e le ricercatrici hanno aggiunto un elemento in più: la possibilità di ricevere una lieve scossa elettrica durante quel tempo di silenzio. Il 67% degli uomini e il 25% delle donne ha scelto di provarla. I ricercatori ne hanno tratto una conclusione disarmante: molte persone preferiscono fare qualcosa di spiacevole, piuttosto che non fare nulla.
Chris Hayes parte proprio da qui per riflettere sul nostro rapporto con gli smartphone.Perché il telefono non solo ci distrae: lo fa in modo così generoso, continuo, immediato, da riempire intere giornate di click, swipe, video e tab che si aprono e si richiudono senza che nulla si fissi davvero nella memoria.
Sfrutta una debolezza umana, quella indagata dall’Università della Virginia, per renderci dipendenti da un oggetto, da un contesto, da un ecosistema.
Non è che sia una novità, è importante dirselo.
Tim Wu, in The Attentiont Merchants, fa risalire l’inizio dell’economia dell’attenzione alla Penny Press, i primi giornali ad avere un modello economico basato sulla vendita di pubblicità. E per cui, quindi, la prima cosa importante era catturare l’attenzione delle persone, per poi rivenderla tramite annunci agli inserzionisti.
Wu individua un momento simbolo dell’evoluzione della battaglia per la nostra attenzione, negli anni Sessanta dell’Ottocento, a Parigi. Negli anni in cui Jules Chéret, un artista e tipografo, inizia a produrre manifesti su commissione, introducendo una nuova forma di arte commerciale. Se ci pensate, riuscite a immaginarli: colorati, vivaci, con figure femminili disegnate in modo elegante. In poco tempo, racconta Wu, Parigi si riempie di manifesti di questo genere. La sfida era chiara: a vincere era chi riusciva a far alzare gli occhi ai cittadini.
È un momento importante, perché è una delle prima battaglie a cielo aperto per l’attenzione. Qualcosa di diverso dalla Penny Press: il giornale presupponeva un acquisto. Ovvero, io entro in quella battaglia solo se compro, magari stimolato dal passaparola o da uno strillone. I manifesti no, stanno in uno spazio pubblico che comunque devo abitare: riuscirò a non guardare? Scrive Wu:
Fin dall’inizio l’industria dell’attenzione, in molte forme, ha chiesto e ottenuto sempre più dei nostri momenti di veglia, in cambio di nuovi benefici e svaghi, creando un mercato che ha trasformato le nostre vite. In questi anni, come società e come individui, abbiamo accettato un’esperienza di vita che in tutte le sue dimensioni risulta mediata come mai in passato.
I manifesti a Parigi servono da simbolo per una novità importante nel mondo dell’economia dell’attenzione: lo sbarco di queste battaglie in contesti in cui non c’è una vera alcuna possibilità di scegliere se partecipare o meno.
Comprare un giornale, ma anche accendere il televisore, sono azioni che, consciamente o meno, ci espongono a una battaglia per la nostra attenzione. I manifesti pubblicitari non sono una scelta: esistono, fanno parte del paesaggio, i nostri occhi possono rimanerne catturati senza un’esplicita dichiarazione di interesse.
È una delle novità che gli smartphone introducono, nel contesto dell’economia dell’attenzione. E cioè vanno a prendere sacche di attenzione che, fino a qualche momento prima, erano considerate inaccessibili. Perché troppo private, sicure, riservate a una serie di momenti che finiscono col costruire le nostre esperienze di vita.
L’ubiquità del dispositivo elimina gli spazi sicuri: ogni momento di veglia è potenzialmente un momento di battaglie per catturare l’attenzione. Un’attenzione che diventa per forza di cose sempre più frastagliata. Qualunque giornata, di ciascuno di noi, è scandita da un susseguirsi continuo di sollecitazioni, più o meno gradite, a cui dedichiamo frazioni di concentrazione sempre più ristrette.
Il vecchio modello - quello televisivo, la vera evoluzione della Penny Press - puntava a catturare l’attenzione e a trattenerla. Il nuovo modello si accontenta di catturarla, nient’altro. Se ti senti deluso, preso in giro o annoiato non importa: tra cinque secondi ci sarà un altro video, un altro post, un’altra notifica pronta a catturarti di nuovo.
Non è più necessario intrattenere: basta distrarre.
Il risultato è un ecosistema in cui l’attenzione viene scomposta in frammenti e venduta all’asta, senza nemmeno bisogno di offrire qualcosa di “divertente” nel senso tradizionale del termine.
Chris Hayes osserva che questo modello ha risolto una delle ossessioni centrali dell’industria culturale del Novecento, quella che per decenni ha tormentato produttori televisivi, editori, impresari teatrali: come facciamo a trattenere lo spettatore?
Per Instagram, YouTube, TikTok il problema non si pone: non è più necessario trattenere nessuno. Basta gettare addosso al pubblico milioni di micro-interruzioni, analizzare quali sono quelle che funzionano meglio e poi replicarle in un feed infinito.
Non c’è bisogno, in altre parole, che Instagram ti proponga un contenuto così irresistibile da farti spegnere la TV, da farti cambiare canale. Può semplicemente offrirti qualcosa di abbastanza interessante mentre scorri i video “get ready with me” e metti like alle storie di un’amica, tutto mentre in sottofondo va l’ultima puntata della tua serie preferita.
Il punto non è cosa stiamo guardando. Il punto è non farti smettere di guardare.
Questa mutazione sociale e antropologica ha conseguenze importanti sulle vite che viviamo e sulle società che abitiamo.
Hayes analizza in particolare la dimensione politica, con un riferimento alle modalità in cui Donald Trump sfrutta questo sistema. Trump, si legge nel libro, avrebbe individuato e sfruttato con successo un meccanismo tanto rischioso quanto efficace: trasformare l’attenzione negativa in vantaggio strategico.
L’intuizione, scrive Hayes, è che Trump abbia capito che portare l’attenzione pubblica su certi temi, anche in modo volutamente provocatorio o respingente, avrebbe comunque pagato. Perché? Perché su quei temi specifici, ad esempio l’immigrazione, lui e il Partito Repubblicano godono di un vantaggio nei sondaggi. E quindi, sebbene le sue uscite possano costargli parte dell’elettorato, il semplice fatto di alzare il volume della conversazione su argomenti in cui è percepito come più forte, avrebbe spostato l’agenda a suo favore.
E quindi, per dirla in un altro modo, non è tanto importante che i dazi siano assurdi, che le modalità in cui sono stati calcolati destino parecchie perplessità. O che siano stati rimandati solo una settimana dopo.
Conta posizionarsi, costruire una vibe intorno a un argomento che una parte del suo elettorato considera importante.
Prima di passare a qualcos’altro.
Ecco, e poi ci siamo noi.
Impazienti, distratti, incapaci di trovare una direzione che non stia nell’interruzione continua.
In un libro di qualche tempo fa che si chiama Scansatevi dalla luce, l’ex designer di Google James Williams parla in modo secondo me ancora efficace degli effetti che questo ecosistema ha su di noi.
Williams individua tre livelli e tre effetti che gli smartphone possono avere sulla nostra attenzione.
Spotlight è l'attenzione immediata, quella che ci serve per leggere un articolo, rispondere a un messaggio, scrivere un documento di lavoro. E anche la più esposta agli stimoli di smartphone e social: notifiche, vibrazioni, scroll infiniti che ci tirano fuori dal compito in corso.
Starlight è la direzione. La traiettoria che scegliamo per provare a realizzare ciò che conta. Il punto è che se ogni giorno qualcosa ci impedisce di portare a termine il lavoro, alla lunga perdiamo la rotta. I progetti si sfilacciano, i desideri si fanno più opachi.
Daylight, infine, è la capacità di capire cosa vogliamo davvero. Quella che ci permette di pensare, riflettere, desiderare in modo lucido. È qui che l'economia dell'attenzione incide più a fondo: quando perdiamo questa luce, non siamo solo distratti. Siamo disorientati. Iniziamo a vivere dentro l'immediato, senza più lo spazio mentale per capire da dove veniamo e dove stiamo andando.
A New York c’è una scuola, si chiama Strother School of Radical Attention. È una scuola dedicata al recupero dell’attenzione, a quello che chiamano “attivismo dell’attenzione”. Fanno workshop, seminari, esercizi. Uno di questi prevede l’andare in giro per un quartiere e annotare tutto quello che succede, far caso ai particolari, alle persone, agli edifici.
Non so quanto sia la soluzione, né quanto funzioni. E spesso è una battaglia persa in partenza, perché semplicemente non abbiamo le armi adatte a rispondere, a resistere. A un certo punto, però, è importante riflettere su quanto le cose a cui prestiamo attenzione diventino una parte consistente di quello che siamo.
Siamo, in fondo, quello a cui decidiamo di prestare attenzione.
Ed è per questo che, in un modo o nell’altro, è sempre più importante trovare strade per ricominciare a scegliere dove e cosa guardare.
E anche questo numero di Turisti della realtà è andato. Fammi sapere se ti è piaciuto, se ti va. Puoi anche condividere la newsletter dal bottone qui sotto, iscriverti da quello ancora più sotto, scrivermi o seguirmi qui.