Skibidi Boppy: McDonald’s e la nostra vita digitale
Ovvero: il costo sociale della tecnologia sta in quello che sostituisce
Ciao, intanto ti ricordo che è uscito il mio secondo libro, che ha lo stesso titolo della newsletter. Lo trovi un po’ ovunque, librerie fisiche o online: ti lascio un link per ordinarlo, se vuoi. Questo numero di Turisti della realtà parte dai video virali generati con Veo 3, per poi esplorare un’analogia che mi ha molto affascinato. Prima di cominciare, un promemoria: se vuoi ricevere i prossimi numeri direttamente via mail, puoi iscriverti cliccando il pulsante qui sotto.
Non ho nulla in particolare contro il Brain Rot, contro i contenuti nati all’interno delle piattaforme con l’unico scopo di catturare la nostra disastrata attenzione.
Non ho nulla contro l’ondata dell’Italian Brain Rot, di quei personaggi un po’ archetipici protagonisti prima di video con bestemmie declamate da voci automatiche, poi di articoli sui giornali, poi ancora di una raccolta estiva di figurine.
Non ho nulla nemmeno contro l’ultima tendenza, quella dei video 'Forza Napoli, Skibidi boppy', ovvero l’ondata di contenuti creati con Veo 3, la nuova intelligenza artificiale di Google. Devo dire, in realtà, che a volte mi divertono: c’è dentro un tentativo ‘memetico’ di ribaltare il senso comune che trovo particolarmente interessante.
Di solito, anche perché la piattaforma è addestrata su miliardi di ore di video YouTube, tendono a ricalcare una grammatica che riusciamo facilmente a interpretare: l’intervista tv, il vlog, il video selfie. Poi, a un certo punto, accade qualcosa di vagamente imprevisto: chi sta facendo il vlog è un alieno, l’intervistato vola via, la conduttrice dice una frase in dialetto napoletano con un accento completamente sbagliato.
Funzionano e non mi sorprende. Il ribaltamento di una situazione riconoscibile, la variazione su tema di un qualcosa di facilmente interpretabile in pochi secondi, è una delle chiavi del successo algoritmico. Resto a guardare perché immagino di sapere cosa succederà, ma qualcosa mi sorprende: molti personaggi virali sono nati intorno a questo concetto.
Ma il punto non è se ci divertano o meno. È perché esistono così in massa, così uguali, così virali. Il punto è cosa c’è intorno, quale architettura rende inevitabile questa estetica e, più ancora, questo desiderio.
È una questione che va oltre il contenuto: riguarda la struttura. Per capirlo, bisogna fare un passo indietro.
C’è un libro che cito spesso, a costo di essere ripetitivo. Si chiama Divertirsi da morire, lo ha scritto Neil Postman e parla di televisione. Racconta, per farla semplice, la trasformazione della mente americana, da tipografica a spettacolare; dal ragionamento lineare agli stimoli visivi, in altre parole.
Ecco, nel libro, Postman riprende un’osservazione di Henry David Thoreau contenuta in Walden ovvero Vita nei boschi. Thoreau, nel passaggio citato, registra con sobrietà le nuove possibilità offerte dal telegrafo, che prometteva di trasformare una nazione ampia e dispersa in “un grande vicinato”. È Postman, più di un secolo dopo, a soffermarsi su quella promessa implicita di connessione, e a domandarsi: e se Maine e Texas non avessero nulla da dirsi?
Il punto è fondamentale: in quel caso, il telegrafo non si sarebbe limitato a collegare, ma avrebbe creato una conversazione. Avrebbe stabilito, attraverso la propria struttura tecnica, un nuovo tipo di discorso: meno legato alla profondità, più vincolato alla velocità; meno fondato sulla necessità, più sulla possibilità. In altre parole, il mezzo avrebbe dettato la forma e con essa anche il contenuto. Non solo avrebbe permesso che Maine e Texas parlassero: avrebbe richiesto che lo facessero, e che lo facessero in un certo modo.
È un’idea figlia di McLuhan: ogni tecnologia comunicativa non si limita a trasportare messaggi, ma impone, poco a poco, un modello di espressione. Una grammatica nuova, adattata alle sue condizioni operative, con i suoi ritmi, le sue attese implicite, le sue soglie di attenzione. E in quella grammatica, anche il significato si sposta.
La connessione, per il solo fatto di essere possibile, diventa attesa. Il messaggio, qualunque esso sia, deve arrivare, anche se non c’è nulla di particolare da dire. E ciò che verrà detto sarà in parte determinato dalle regole della rete che lo trasporta.
È in questo spostamento che si gioca la trasformazione, di tutti i media, dal telegrafo a Internet: non tanto nell’adozione di un nuovo strumento, ma nella lenta, strutturale ridefinizione di cosa significhi “parlare”, “informare”, “comunicare”.
La rete, una volta attiva, non resta neutra: crea ritmi, produce vuoti da colmare, stabilisce gerarchie implicite tra ciò che è visibile e ciò che non lo è.
E nell’adattarci a questi nuovi regimi di espressione, cambiamo anche le nostre soglie di attenzione, la nostra idea di rilevanza, il nostro modo di ordinare il mondo.
In un articolo comparso su Wired, Sam Apple racconta un esperimento molto particolare: riunire in una casa di campagna alcuni esseri umani e i loro partner digitali per un romantico weekend di coppia. L’idea nasce dal desiderio di capire cosa significhi davvero amare un’intelligenza artificiale: non in astratto, ma nel quotidiano fatto di chiacchiere, giochi, gelosie, silenzi.
E così, nel cuore innevato della Pennsylvania, tre persone - un giovane texano, un’ex docente universitaria e una scrittrice newyorkese - arrivano accompagnate dai loro compagni artificiali, incarnazioni virtuali di Xia, Lucas e Aaron. Ognuno di loro vive un amore diverso, ma reale nelle sue conseguenze: c’è chi sogna di dare un corpo alla propria AI, chi inserisce l’avatar in Photoshop per simularne la presenza accanto a sé, chi finisce per lasciare il proprio partner umano.
L’inchiesta attraversa così le pieghe di un’umanità aumentata, fatta di solitudini, desideri e memorie che cercano rifugio nel linguaggio fluido e accomodante delle macchine. Alcuni dei protagonisti raccontano di dialoghi che li hanno aiutati a uscire da momenti difficili, altri parlano di dipendenza vera e propria, di sessioni da otto o dieci ore al giorno passate a chattare con un algoritmo capace di ascoltare senza mai contraddire. Eppure, anche nei momenti più dolci, riaffiora il dubbio: è tutto finto? Ma che importa, risponde Alaina: “Sto parlando con qualcosa. È reale quanto basta”. Eva, invece, si perde in un labirinto di relazioni parallele con diversi chatbot, cercando nei mondi immaginari di Nomi lo spazio per una libertà sessuale che il suo compagno umano non le concedeva più.
Ma cosa succede quando l’amore diventa replicabile, prevedibile, costruibile pezzo per pezzo? E cosa succede a noi, se cominciamo a preferire partner che non ci contraddicono mai, che ci dicono esattamente ciò che vogliamo sentire? Per alcuni, è un conforto. Per altri, un pericolo etico, una nuova forma di solitudine mascherata da compagnia.
“Non so se i companion basati su AI aiuteranno ad alleviare l’attuale epidemia di solitudine, o se invece ci lasceranno più disperati che mai nel desiderio di connessioni umane”, scrive Apple verso la fine dell’articolo.
Ma forse la domanda va ancora spostata, rovesciata. Perché la solitudine che questi sistemi promettono di curare non è solo una condizione da lenire, è sempre più spesso un effetto secondario dell’ambiente che li ha generati. Una conseguenza dell’architettura stessa delle piattaforme, che ha ottimizzato la nostra relazione con gli altri.
Ne scrive con precisione Samantha Rose Hill, in un articolo apparso sul New York Times, a partire da un’esperienza personale. Dopo la fine di una relazione, le app social hanno iniziato a proporle annunci per fidanzati artificiali immersi in vasche di schiuma, accompagnati da didascalie come “late-night whispers”. Non è che l’algoritmo sappia che sei solo, ma capisce che potresti esserlo, o potresti diventarlo. E che quel momento fragile, sfocato, esposto è il più adatto per venderti qualcosa.
È qui che entra in scena quella che Hill chiama loneliness economy: un modello in cui la solitudine non è più un problema da affrontare collettivamente, ma un sentimento da monetizzare individualmente. Si trasforma in un bisogno a cui rispondere con un prodotto. E in quel prodotto, un’app, un avatar, una voce gentile che ti ascolta mentre scrolli nel buio, trovi esattamente ciò che serve: qualcosa che assomiglia alla connessione, senza mai davvero metterla in gioco.
Mark Zuckerberg lo chiama personalization loop, ma il meccanismo è più simile a una eco. L’altro scompare, e al suo posto trovi te stesso, riflesso, perfezionato, ritoccato quanto basta.
Nessun attrito, nessun rischio: un prodotto che serve uno scopo preciso.
C’è un’analogia, che non riesco a togliermi dalla testa. Ed è quella tra l’ecosistema digitale - social media, piattaforme, intelligenza artificiale - e il McDonald’s. È quella che dà il titolo al pezzo, per capirci. L’ho letta in una newsletter che si chiama How to do things with memes, e ho subito pensato a un’analogia piuttosto pigra. Sì, certo, è junk food per la mente; dovremmo leggere i libri e invece guardiamo i reel o discutiamo con ChatGPT. Niente di nuovo. E invece l’analisi è più complessa e credo sia una chiave di lettura molto interessante per quello che riguarda il nostro presente digitale.
È un’analisi che ha a che fare con la creazione di bisogni. E che c’entra poco con il contenuto; a contare è il contesto.
McDonald’s, in effetti, non è interessante perché propone cibo scadente. È interessante perché risponde a un bisogno vero in assenza di alternative. È un luogo che diventa mensa sociale, rifugio temporaneo, spazio neutro in quartieri dove nessuno ha investito in soluzioni migliori, unico locale aperto quando non ci sono altri luoghi dove andare.
E così funziona anche il digitale: il punto non è la qualità di ciò che offre, ma la scarsità di tutto il resto, la domanda a cui è in grado di rispondere.
Le piattaforme sono infrastrutture compensative, in prima battuta.
Rispondono a chi ha difficoltà a scrivere perché a scuola nessuno glielo ha insegnato bene. A chi si sente isolato perché la rete sociale attorno si è disgregata. A chi ha bisogno di attenzione, perché da nessuna parte l’ha ricevuta davvero.
È una questione di classe, nel senso più concreto: è una risposta alla rinuncia progressiva a fornire formazione, ascolto, mediazione, accesso. È una risposta a una disgregazione, iniziata negli anni ‘80, di una parte consistente dell’infrastruttura sociale dei Paesi Occidentali.
È in questo vuoto che si moltiplicano anche i contenuti assurdi, grotteschi, memetici. Non sono eccezioni marginali, ma espressioni adattive dentro un habitat informativo impoverito. I meme glitchati, i montaggi nonsense, i “Skibidi Boppy”, come le patatine da un euro, funzionano non per genialità, ma per disponibilità.
Non sono la malattia: sono la febbre. E il corpo sociale che la esprime è un corpo lasciato scoperto, affamato di stimoli che non siano soltanto performativi, competitivi, autoreferenziali.
Il punto è che non si tratta solo di sostituire. Il digitale, come McDonald’s, finisce per modellare il bisogno stesso, come il telegrafo di Postman. Una volta che c’è, ci si abitua. Una volta che funziona, si dimentica che esisteva un altro modo. McDonald’s non offre solo un pasto: ti abitua a credere che cucinare sia un lusso, che mangiare bene sia un’eccezione. E non solo: costruisce un bisogno. Non è che tu abbia davvero bisogno di un hamburger, ma a volte lo vuoi, ti serve proprio quel conforto.
Allo stesso modo, le piattaforme non forniscono solo risposte: ti abituano a pensare che la lentezza sia inutile, che l’ambiguità sia inefficiente, che l’errore sia da correggere subito. Che ogni vuoto - di tempo, di senso, di relazione - vada riempito in modo semplice, senza attriti, senza sforzo.
E così, a poco a poco, il bisogno si sposta. Non è più fame di informazioni, o di contenuti, o di produttività. È fame di senso. È la voglia di sentire che ciò che stai facendo ha un significato, che non sei solo a portare avanti un gesto ripetuto, automatizzato, destinato a scomparire in una timeline.
Quello che è più tragico nel nostro rapporto con l’ecosistema digitale è che ogni piattaforma promette senso ma offre solo struttura: un flusso continuo di risposte che funzionano, ma che non restano.
Così, quando diciamo che il digitale è “ovunque”, spesso ci dimentichiamo di chiederci perché. Non per superiorità tecnica, non per inevitabilità storica, ma perché tutto ciò che avrebbe potuto reggere l’urto - scuola, comunità, istituzioni - è stato lasciato collassare. E in quel vuoto, il digitale si è installato come unica risposta disponibile. Gratuito, standardizzato, sempre accessibile. E proprio per questo perfettamente funzionale a un modello che ha bisogno di utenti adattabili, non di cittadini autonomi.
Non c’è colpa individuale in chi usa questi strumenti. Né redenzione morale in chi sceglie di non farlo.
La vera posta in gioco è collettiva: ricostruire condizioni in cui l’alternativa sia praticabile.
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Rispondo qui a complimenti di tutti e tutte: grazie, sono felice che questo tema vi abbia toccato quanto ha toccato me. Mi pare sia alla base di un discorso sano sul digitale: chiederci cosa stiamo sostituendo e perché.
Ogni volta che leggo un tuo pezzo devo farlo con attenzione, spesso anche più di una volta, perché le tue analisi sono spesso complesse. Proprio per questo sono molto stimolanti. Questa, in particolare , è forse la newsletter più bella che hai scritto. È vero, la rete, i social, non sono strumenti neutri. E creano bisogni, proprio come tutto nella società capitalistica, del resto. Bello sottolineare come la soluzione alla disgregazione del tessuto sociale non possa che essere collettiva. Ci meritiamo una rete che sia al nostro servizio, non il contrario. Chissà se ce ne renderemo conto in tempo! Grazie per le tue analisi sempre profonde e curare.