Pollice su Ep. 4: contro i contenuti e il capitalismo comunicativo
Ovvero: appunti per una critica (quasi) disperata dell’intrattenimento permanente
Ciao, siamo alla quarta puntata di Pollice su. Un recap, per chi dovesse essere arrivato/a nelle ultime settimane. Quella che leggerete è una rubrica di questa newsletter che simula una sessione di scroll su TikTok. È un modo per costruire una distanza intorno a quello che vediamo online, per leggere quelle scene con gli occhi di qualcun altro. E, nel frattempo, provare a riflettere sulle conseguenze. Se ti va, fammi sapere se funziona.
Il soggiorno di una casa che pare molto accogliente, parquet chiaro e parete grigia dietro al divano bianco.
All’angolo del divano c’è seduta una ragazza imbronciata. La scritta dice:
“Breve storia triste: la mia fidanzata voleva un dolcetto post cena, io no. Non l’ha mangiato nemmeno lei e ora non posso più parlarle”.
La telecamera si avvicina lentamente con uno zoom.
Una voce maschile ride, lei rimane impassibile.
Una donna cinese seduta al tavolo di un parrucchiere. Le viene spruzzata una enorme quantità di schiuma rosa sulla testa, sembra una sorta di panna montata modificata geneticamente.
La panna viene distribuita sui suoi capelli che, dopo qualche manipolazione che onestamente non riesco a decodificare, diventano rosa, più o meno del colore della schiuma iniziale.
Il video ha oltre 500.000 like.
Nei commenti, in una quantità di lingue devo dire sorprendente, le persone si scambiano opinioni, raccontano le loro esperienze, fanno i complimenti alla modella e al parrucchiere.
Un ragazzo e una ragazza, davanti alla telecamera in una casa un po’ qualunque.
Sulle prime nemmeno te ne accorgi, ma c’è qualcosa di strano: i due sembrano essersi scambiati i vestiti. Lui ha un vestito leopardato, lei indossa quello che sembra essere uno smoking.
A un certo punto lui si avvicina alla telecamera, si gira. La scena successiva li vede entrambi in un parcheggio: stavolta i vestiti sono giusti. I due ballano e si abbracciano guardando in camera. La didascalia recita: #prom.
Incuriosito, vado a guardare il profilo che ha pubblicato il video.
È il lui della coppia, una vita qualunque in un college americano di media fascia. Ha poco più di 3.000 follower.
Il video che ho appena visto ha 9.5 milioni di visualizzazioni.
Questa storia mi fa pensare a una definizione introdotta dalla politologa Jodi Dean, tra la metà e la fine degli anni zero. Dean parla di capitalismo comunicativo, ovvero la condizione contemporanea in cui le promesse della comunicazione democratica vengono inghiottite e neutralizzate dalla logica del capitale. La rete, invece di costituire uno spazio aperto al dibattito e all’emancipazione, diventa un circuito autoreferenziale di espressioni, like, post, thread e reazioni che sostituiscono l’azione politica con il suo surrogato performativo.
Non è la mancanza di voce il problema, ma l’eccesso: tutti parlano, scrivono, commentano, ma niente cambia, perché ogni enunciazione è immediatamente assorbita nel flusso. In altre parole, partecipare diventa trasmettere e trasmettere diventa un obbligo: in questo modo, l’informazione circola incessantemente ma senza sedimentarsi.
Scrive Dean:
Slegato da un contesto d’azione o di applicazione – come accade sul Web, o nei media a stampa e broadcast – il messaggio diventa semplicemente parte di un flusso continuo di dati. Il contenuto specifico non conta. Chi lo ha scritto non conta. Chi lo legge non conta. Che richieda o meno una risposta non conta. L’unica cosa che conta è la circolazione: l’aggiunta al bacino comune. Ogni singolo contributo rimane secondario rispetto al fatto stesso che circoli. E il valore di quel contributo è, a sua volta, inversamente proporzionale all’apertura, all’inclusività o all’ampiezza del flusso in cui si inserisce: più opinioni o commenti esistono là fuori, minore sarà l’impatto di ciascuno (e tanto maggiore dovrà essere lo shock, lo spettacolo o la novità per riuscire a farsi notare). In sintesi, la comunicazione funziona in modo sintomatico per produrre la propria negazione.
Ed è questo il nodo: non sono sicuro di cosa quel video mi stia dicendo, so solo che mi distrae, che attira la mia attenzione, che la ruba, in qualche modo.
La promessa di apertura democratica della comunicazione aperta si rovescia nella sua parodia, in un’imitazione a misura di consumo, dove l’illusione di coinvolgimento serve solo a rendere più efficiente il sistema.
Si torna in Italia. Un ragazzo - direi umbro, ma non sono sicuro - si lamenta dell’avversione della gente nei confronti delle persone basse.
Parla delle sue disavventure in modo molto veloce, quasi frenetico. Fa sorridere, in alcuni momenti.
Nei commenti, altre persone basse esprimono la loro solidarietà.
Mi chiedo se ci sia un modo per l’algoritmo di TikTok di stimare l’altezza delle persone.
Forse sì, a questo punto.
Alla ricerca di un motivo per visitare i Paesi Bassi.
C’è scritto questo, nella caption iniziale di un video che mostra la strada principale di una cittadina qualunque. C’è una donna vestita da majorette al centro della strada, con una musica da banda.
Dietro, una fila di oche, papere, insomma pennuti che non volano, cammina ordinata; sembra quasi tenere il tempo a ritmo di musica.
A chiudere la fila un signore con un tamburello.
Un aereo da guerra, pare trasportare un missile, appeso con una corda in basso.
Il disegno è strano, sembra un po’ quello di un videogioco. Del resto, il muso del velivolo è quello di un coccodrillo.
O meglio, quello di Bombardino crocodrilo, come conferma una voce robotica in sottofondo, che parla l’italiano con accento americano dell’intelligenza artificiale. Bombardino è uno dei personaggi dell’italian brainrot, una serie di meme che abbinano animali immaginari dalle forme e dimensioni particolari, generati con ChatGPT, e brevi filastrocche intonate da voci meccaniche, tra offese e blasfemie.
Il video che è appena ricominciato, ipnotico, ha oltre 1 milione di like, più di 20,5 milioni di visualizzazioni.
In un articolo pubblicato a giugno scorso sul New York Times, il pediatra Michael Rich, fondatore del Digital Wellness Lab e specialista in quello che al Boston’s Children Hospital chiamano Problematic Interactive Media Use, spiega come molti dei suoi pazienti considerino il brain rot quasi un simbolo di orgoglio. Lo trattano quasi con simpatia, riconoscendo che un uso ossessivo di internet ha delle conseguenze, ma non abbastanza da spingerli a ridurre il tempo online.
“Anche se vivono gli effetti del brain rot, non lo vedono come un motivo sufficiente per allontanarsene,” osserva il dottor Rich.
Ed è questo quello che vedo, più di ogni altra cosa, in questa serie di video apparentemente senza senso: una sorta di ironia nichilista, una rassegnazione senza scampo.
L’accettazione divertita di una condizione che, comunque, non puoi o non hai la forza di cambiare.
Max Pezzali, ospite in un famoso podcast, risponde a una domanda sull’autotune.
“Si può fare una petizione che non se ne parla più?”, dice l’autore di Come mai.
Parla poi, in modo piuttosto ragionevole, di innovazione tecnologica e dell’impossibilità di fermare questo genere di trasformazioni.
“Ecco a cosa assomiglia il 14 aprile in Italia, a Positano”, dice, guardando la camera, un’influencer di origini britanniche che credo di conoscere.
“Sono tutti in spiaggia”, conferma: le immagini scorrono su una spiaggia effettivamente affollata di persone che prendono il sole.
Poi la telecamera torna su di lei, che annuncia il primo bagno della stagione.
La scena è quella di un esame universitario. Riconosco l’attore che interpreta il professore: è uno di quelli famosi; di quelli che, nati sul web, alla fine sono arrivati anche in tv.
La scenetta simula un esame di storia dell’arte. Il concept del video è costruire una narrazione molto seriosa intorno ai personaggi dell’Italian brainrot (l’algoritmo avrà capito che sono interessato).
Quei personaggi così ridicoli, insensati, diventano oggetto di un esame universitario. Viene data loro una rilevanza, in un mondo che li ha resi elementi di una cultura condivisa.
Sorrido ma basta, mi fermo.
Però questo scroll mi ha fatto pensare a un articolo firmato da Martin Scorsese, apparso su Harper’s Magazine nel 2021. È un pezzo di cui si è parlato tanto, in cui uno dei più grandi registi di tutti i tempi parla della “magia persa del cinema”.
E parla anche di contenuto, di questa parola usata per indicare qualsiasi opera audiovisiva (e non mi permetto di aggiungere). Scrive:
Contenuto è diventato un termine aziendale per indicare tutte le immagini in movimento: un film di David Lean, un video di un gatto, uno spot del Super Bowl, un sequel di supereroi, un episodio di una serie. È stato associato, naturalmente, non all’esperienza teatrale ma alla visione domestica, sulle piattaforme di streaming che hanno finito per superare l’esperienza della sala cinematografica, così come Amazon ha superato i negozi fisici. Da un lato, questo è stato positivo per i registi, me incluso. Dall’altro, ha creato una situazione in cui tutto viene presentato allo spettatore su un piano di apparente parità, che suona democratico ma non lo è.
Un prodotto di consumo, perfettamente fungibile: non un’idea, una forma o un’opera, ma solo ciò che può circolare, ciò che può essere tracciato, monetizzato, consigliato.
E dimenticato, un colpo di pollice dopo l’altro.
E anche il quarto numero di Pollice su è andato. Fammi sapere se ti è piaciuto questo esperimento, se ti va. Puoi anche condividere la newsletter dal bottone qui sotto, iscriverti da quello ancora più sotto, scrivermi o seguirmi qui.
Che grande riflessione, stiamo iniziando finalmente a leggere la realtà dei social per quello che è. Siamo la vera “resistenza “
"Mi chiedo se ci sia un modo per l’algoritmo di TikTok di stimare l’altezza delle persone" in un certo senso credo di sì, e ora ti sparo come - magari è una sciocchezza, ma. Il tema dell'essere bassi è un cavallo di battaglia incel. Se dovessi giudicare solo dai social (specie TikTok) direi che i maschi sono ossessionati dall'altezza e convinti che l'altezza sia l'unica cosa che una donna guarda, e questo è ingiusto perché è un elemento che non possono cambiare ("ma pensa" mi verrebbe da dire, ma non allunghiamo questa parentesi). Ergo, quello che citi credo sia un tipo di contenuto che viene facilmente mostrato a chi è profilato come uomo, a maggior ragione a chi orbita in certi "giri", magari senza rendersene conto.