Pollice su ep. 3: Mettere a nudo la manosphere
Ovvero: può una morning routine essere un prodotto artistico?
Ciao, siamo alla terza puntata di Pollice su, la rubrica di questa newsletter che simula una sessione di scroll su TikTok. Ecco, questa volta no. L’intero articolo racconta un unico contenuto, una morning routine di un tizio che si chiama Ashton Hall, diventata virale su X. È un modo per parlare di manosphere e illusione di controllo. L’idea della rubrica resta la stessa: cercare di guadagnare una distanza nella lettura dei contenuti digitali. Se ti va, fammi sapere se funziona.
3.52 am
Inizia tutto con un uomo davanti allo specchio. Lo sguardo sicuro, quasi una sfida a sé stesso.
Sulla bocca, un nastro adesivo nero. Dura pochi istanti: nella scena successiva, il nastro viene rimosso, lentamente.
Le immagini sono veloci, quasi frenetiche. La persona sullo schermo apre un cassetto, si lava i denti mentre continua a osservare la sua figura nello specchio.
Compare un bicchiere: l’acqua comincia a scorrere da una bottiglia blu. Il protagonista ne beve un sorso, fa degli sciacqui, si allontana.
Sono le 3.56 del mattino.
Ashton Hall è un tizio un po’ qualunque: una carriera dimenticabile nel football americano prima della trasformazione in personal trainer e guru del fitness online.
È il protagonista di un video, una morning routine che, per ragioni oscure ma che proverò a indagare in questo articolo, è diventato in poco tempo uno tra i più visti della storia di X (Twitter, insomma). Mentre scrivo, siamo oltre quota 700 milioni di visualizzazioni, senza contare le parodie, le citazioni, i commenti, gli articoli.
Di solito in questa rubrica simulo una sessione di scroll: un contenuto dopo l’altro, provo a dare un senso alla nostra presenza online, a costruire una distanza che ci permetta di elaborare quello che vediamo quando siamo sui social media.
Ecco, oggi vorrei fare un esperimento diverso.
Provare a raccontare, a partire da questa assurda ritualità mattutina di quasi 6 ore, la manosphere, i maschi online e un bisogno - che credo condiviso - di controllo, di ottenere un qualche genere di risposta alla nostra insoddisfazione permanente.
4.00 am
L’uomo cammina, lo vediamo di lato, comparire al centro di una porta. Si dirige verso una grande porta finestra di un appartamento che sembra essere uno di quelli che vedi in alcuni film degli anni ‘90. In un grattacielo, un grande terrazzo, una sensazione generalizzata di ricchezza.
Esce fuori, su questo terrazzo che affaccia su un generico skyline di una qualunque città americana. Qualche flessione per cominciare, ancora un po’ d’acqua. Poi, un momento che non è facile interpretare: pare si fermi. Resta in piedi a occhi chiusi per circa quattro minuti, secondo il contatore che continua a scorrere al centro dell’immagine.
Rientra, si siede a una scrivania.
Sono le 4.38 del mattino.
La morning routine, l’idea di un controllo maniacale della propria vita e della propria mascolinità, è un tipo di contenuto molto frequente in quella che generalmente chiamiamo manosphere (per avere una panoramica più dettagliata sul tema, vi segnalo questo articolo di Viola Stefanello e e questo podcast di Beatrice Petrella) . Ovvero quella galassia online che raccoglie community maschili accomunate da una forte opposizione al femminismo e da una visione della vita come competizione gerarchica in cui l’uomo deve riaffermare il proprio dominio.
Al centro di questo mondo, c’è un’ossessione per il controllo – di sé stessi, delle proprie emozioni, delle donne – e la convinzione che ogni insoddisfazione personale possa essere superata applicando ricette codificate di auto-miglioramento.
È un elemento chiave di questa ideologia: un’adesione quasi fideistica all’idea che per diventare un uomo di successo – un vero alpha – sia necessario ottimizzare ogni aspetto della propria vita quotidiana, dalla dieta al sonno, attraverso abitudini codificate e immutabili.
Si ritrovano concetti presi in prestito da best-seller come Atomic Habits (l’idea di “habit stacking”, ovvero costruire una routine sommando micro-abitudini quotidiane) o dal pensiero stoico e militare (docce fredde, letti sempre in ordine, dieta spartana).
Tutto viene reinterpretato in chiave iper-mascolina: il corpo diventa un’arma da forgiare in palestra, la mente un muscolo da irrobustire tramite sfide quotidiane.
4.38 am
L’uomo si è appena seduto alla scrivania, ha un libro davanti. Per qualche secondo non fa altro che restar lì, occhi chiusi, di fronte alla telecamera.
Qualche minuto dopo, via il libro, dentro una sorta di quaderno. L’uomo lo apre lentamente, con una certa dose di ritualità. Poi inizia a scrivere. A essere un po’ maligni si riesce a notare che quel quaderno non è mai stato usato: siamo alla prima pagina.
Il quaderno scompare, all’improvviso. Ricompare la bottiglia blu di acqua Saratoga: l’uomo beve mentre guarda lo smartphone, poggiato sulla scrivania, su un supporto nero. Pare lo faccia per molto tempo.
Quando si rialza, sono le 5.30.
La manosphere è prima di tutto la risposta – sbagliata – a una domanda. O forse a una ricerca: di ruolo, di senso, dentro una società in trasformazione.
Mi pare che questa storia si possa raccontare a partire da un’angolazione, da un fenomeno sempre più evidente. Lo chiamano ideological gender gap: la distanza crescente tra le posizioni politiche di uomini e donne. I primi sempre più a destra; le seconde sempre più a sinistra.
Un’inchiesta del Financial Times, firmata da John Burn-Murdoch, ha mostrato come in Paesi come Stati Uniti, Regno Unito, Germania e Corea del Sud, i giovani siano ormai molto divisi su linee di genere. Le ragazze tendono verso posizioni progressiste, i ragazzi verso un conservatorismo anche più netto di quello delle generazioni precedenti. Sono stati proprio i giovani maschi bianchi, del resto, una delle basi elettorali decisive per l’elezione di Donald Trump.
Secondo Burn-Murdoch, una parte della spiegazione sta in una traiettoria di evoluzione sociale. Il movimento MeToo ha rappresentato per molte ragazze un passaggio formativo: un punto di inizio per mettere in discussione modelli culturali radicati. Una parte dei ragazzi, invece, ha reagito chiudendosi in identità più rigide, cercando rifugio nei ruoli e nei privilegi che sentiva minacciati.
C’è un saggio di Richard Reeves, Of Boys and Men (2022), che racconta bene questo scivolamento. Parla di un divario crescente tra ragazzi e ragazze sul piano scolastico, psicologico, sociale. “I giovani uomini - scrive - si stanno ritirando dalla società in silenzio”.
È come se il cambiamento avesse generato un vuoto. Cresciuti secondo modelli patriarcali che l’Occidente sta – forse stava – provando a superare, molti ragazzi si sono ritrovati senza coordinate. Spaesati, confusi, in cerca di un ruolo.
E le risposte, spesso, le hanno cercate online.
5.46 am
Succede qualcosa di inaspettato. Sulla scrivania compare una bacinella trasparente: l’uomo la sta riempiendo, prima di ghiaccio, poi della stessa acqua con la bottiglia blu.
È difficile rimanere seri, a questo punto.
L’uomo massaggia l’acqua, la muove, la tocca come se stesse impastando qualcosa. Nella scena successiva, ci infila dentro la faccia, senza esitazioni.
L’intero processo dura circa 15 minuti. Nella scena successiva, vediamo l’uomo prepararsi per andare in palestra. Ci va, fa qualche esercizio, esce.
Sono le 7.31, il sole è sorto alle 6.38 circa.
La manosphere è figlia anche delle piattaforme e degli algoritmi di raccomandazione.
Il patriarcato, l’idea della sopraffazione di genere, è sempre esistito, attenzione: ma in questa forma, in questa estetica, in questa rivalsa come risposta a un cambiamento sociale, è stato reso senso comune proprio dalle piattaforme.
Da un lato, esiste un pubblico ricettivo, certo. Molti ragazzi approdano su questi contenuti perché in cerca di risposte a insicurezze reali. Ma una volta entrati nel circuito, si finisce in comunità che forniscono spiegazioni semplici ai problemi: è colpa di qualcun altro, delle donne, in particolare. Si crea così una camera di eco in cui il rancore viene normalizzato e amplificato.
Un’inchiesta del Guardian ha mostrato che un nuovo account TikTok impostato come adolescente maschio, senza nemmeno cercare attivamente contenuti a tema, viene sommerso presto da video di Andrew Tate e altri influencer di questo genere: dopo aver guardato poche clip sul “mondo degli uomini”, l’algoritmo inizia a proporre in automatico video in cui Tate inveisce contro le donne o lamenta che “la maggior parte degli uomini non ha denaro, potere né sesso – la loro vita fa schifo”.
Nel giro di qualche giorno, il flusso For You di quell’account fittizio diventa dominato per quasi la metà da contenuti di Tate, alternati a spezzoni di Jordan Peterson e di altri coach maschili.
Quel messaggio, ripetuto, ossessivo, parla al tuo dolore, al tuo senso di inadeguatezza: esiste una spiegazione nascosta, che ti hanno negato e che ora sei riuscito a trovare.
Queste dinamiche algoritmiche creano un percorso di radicalizzazione quasi invisibile: un giovane uomo può partire guardando innocui video di fitness o consigli su come parlare alle ragazze, e ritrovarsi in poche settimane abbonato a canali che denigrano le donne o propagano teorie cospirazioniste (lo chiamano “alt-right pipeline”).
La patina da lifestyle coach rende gli influencer più presentabili. Personaggi come Tate o i podcaster di “Fresh & Fit” si mostrano ben vestiti, in studi moderni o ville di lusso, parlano di imprenditoria, fitness, sicurezza in se stessi. Questo packaging attira anche chi non si considera affatto misogino – molti dicono di seguirli “per i consigli utili, non per quando attaccano le donne” – ma di fatto è una strategia per normalizzare sessismo e odio.
Una volta guadagnata la fiducia degli spettatori con qualche consiglio su come investire i risparmi o sviluppare un fisico atletico, gli influencer della manosphere passano, pian piano, a messaggi più netti: le donne sono infedeli, il femminismo è un cancro, se sei maschio devi comandare tu, chi cerca supporto psicologico è un debole.
In questo contesto, lo sappiamo, gli algoritmi, ottimizzati per premiare l’engagement, favoriscono i contenuti più estremi. Discorsi moderati o equilibrati generano meno coinvolgimento emotivo, quindi vengono penalizzati, rispetto a video che propinano le solite volgarità sessiste (qualunque sia la reazione, del resto, va bene).
Così, la visibilità online viene garantita alle voci più estreme e urlate: si crea l’illusione che quelle idee siano molto più diffuse di quanto non siano in realtà.
È un circolo vizioso: più quelle idee si normalizzano e sembrano comuni, più diventano accettabili, più si diffondono.
7.36 am
Quella che probabilmente è la scena madre. Inizia piano, con l’uomo seduto a bordo piscina, che si toglie le scarpe. Qualche attimo dopo lo vediamo in tuffo. Non è nemmeno la cosa più strana del video. Non fosse per il contatore: tra l’inizio del tuffo e l’atterraggio in piscina passano circa 4 minuti, in una singolare sospensione spazio-temporale.
L’uomo riemerge alle 7.51 per poi entrare in una vasca idromassaggio un minuto dopo. Mentre entra, sullo sfondo compare una scritta.
Vietato tuffarsi.
Resta in vasca per un po’, finché una donna non gli porta un asciugamano.
Sono le 8.07.
Ecco, credo che il successo di questo video stia proprio nella continua sovrapposizione tra realismo e assurdità. È una testimonianza dell’insensatezza di questo tentativo di trovare una risposta a un disagio sociale, generazionale, nell’individualismo, nelle soluzioni preconfezionate, nell’illusione che la vita si possa controllare, indirizzare.
In questo senso, sono convinto che questo video sia una sorta di prodotto artistico. Perché permette quello che il critico russo Viktor Šklovskij chiama “straniamento”.
Secondo il critico russo, a forza di vedere le cose sempre allo stesso modo, smettiamo di guardarle davvero. I gesti si fanno automatici, le parole diventano abbreviazioni. Non percepiamo più: riconosciamo. È il linguaggio dell’abitudine, che codifica la realtà fino a renderla trasparente, quasi invisibile.
Per spiegarlo, Šklovskij cita un episodio tratto dai diari di Tolstoj. L’autore di Guerra e pace, racconta di essersi dimenticato se avesse spolverato o meno un divano: un gesto compiuto senza presenza, al punto da non lasciare traccia nella memoria. È questo, dice Šklovskij, il rischio dell’esistenza quotidiana: vivere senza che la vita si registri, come se non fosse mai accaduta.
L’arte, in questo senso, ha il compito di interrompere questo automatismo. Ovvero, farci vedere di nuovo ciò che credevamo di conoscere. Per farlo, utilizza due strumenti: la complicazione della forma, che dilata l’esperienza, e lo straniamento vero e proprio, che spezza il riconoscimento immediato.
In un saggio breve, Una vergogna!, Tolstoj descrive una scena di fustigazione. Ma non la nomina mai, non in questi termini. Non dice “punizione”, non dice “frustate”: racconta i corpi, i colpi, la pelle. Costringe il lettore a rimanere nell’immagine, senza poterla liquidare con una parola.
Lo straniamento è una tecnica percettiva. Ma anche una forma di resistenza: serve a riportare alla coscienza ciò che l’abitudine ha silenziato. A restituire al mondo la densità che il linguaggio ordinario tende a consumare.
Ecco, c’è qualcosa, in quella coreografia di ipercontrollo e iperproduttività, che mette a nudo la messa in scena della mascolinità performativa. È come se quel video, nel tentativo di proporre un modello, finisse per mostrarne l’assurdità. Il gesto ripetuto – svegliarsi alle 3:52, fare flessioni sul balcone, la ricchezza vacua, vuota – non ha senso, non ne ha mai avuto.
Non esiste una risposta univoca all’insoddisfazione, non ci sono routine, non ci sono colpevoli, non ci sono strategie individuali per riguadagnare centralità in opposizione al mondo.
È spaventoso, credo, ma se c’è una cosa che - senza volerlo - il video di Ashton Hall ci racconta è proprio questo: pensare di poter trovare un senso in una manciata di idee e regole propagandate da influencer alla ricerca di potere è una trappola.
8.21 am
L’uomo rientra in casa. Fa una doccia, poi si mette davanti a uno specchio a mangiare una banana. Poi prende la buccia e inizia a strofinarla sulla faccia, apparentemente per una decina di minuti, prima di lavarsi il viso con acqua e sapone.
Da lì, pare che la giornata inizi davvero. Non prima di un altro tuffo di faccia nell’acqua con ghiaccio, questa volta da una bacinella già piena portata da una donna.
A quel punto, l’uomo parla in un microfono, non si capisce esattamente perché. Poi la scena cambia: quella che sembra essere una donna prepara una colazione a base di uova e bacon, per poi servirgliela, insieme alla bottiglia d’acqua blu di ordinanza. L’uomo condisce la sua colazione.
Sono le 9.26 quando il video finisce, all’improvviso.
E anche il terzo numero di Pollice su è andato. Fammi sapere se ti è piaciuto questo esperimento, se ti va. Puoi anche condividere la newsletter dal bottone qui sotto, iscriverti da quello ancora più sotto, scrivermi o seguirmi qui.