Ciao, questo è il primo numero di Turisti della realtà a uscire dopo l’uscita del mio secondo libro, che ha lo stesso titolo della newsletter. Lo trovi un po’ ovunque, librerie fisiche o online: ti lascio un link per ordinarlo, se vuoi. Torniamo a noi: questo numero di Turisti della realtà parla di cultura pop, della crisi dei concerti estivi e di un atteggiamento che qualcuno chiama nichilismo culturale. Prima di cominciare, un promemoria: se vuoi ricevere i prossimi numeri direttamente via mail, puoi iscriverti cliccando il pulsante qui sotto.
Andare ai concerti è sempre stata una parte fondante della mia identità. È sempre stato un argomento di discussione, una leva per entrare in contatto con altre persone con le mie stesse passioni. Nascevano amicizie, andando ai concerti; oppure si consolidavano, con la semplice domanda: “Che concerto ti fai quest’estate?”.
Insomma, questo per dire che sono piuttosto legato all’argomento, per quanto io ormai sia fuori da una parte del target di chi frequenta live in modo assiduo. E quindi mi ha colpito leggere, in queste settimane, di una certa fase di crisi nel mondo dei concerti nel nostro Paese.
Se n’è parlato in particolare a partire da due annullamenti, quelli dei tour estivi di Rkomi e Bresh. Motivazioni diverse, un po’ traballanti, stesso sottotesto: la vendita di biglietti non è andata così bene, meglio evitare di fare figuracce.
Stesso discorso, dicono, per i The Kolors, che hanno ridimensionato il loro tour nei palazzetti e per chi, invece, nelle location grandi ci resta, nonostante tutto, tipo Elodie, Gazzelle e Tony Effe. I biglietti venduti sono pochi, si cercano strategie per mascherare location semivuote.
Non sarebbe la prima volta, negli ultimi mesi. Ad aprile di quest’anno, gli Eiffel 65 avevano annullato una nostalgica reunion a Milano a pochi giorni dalla data. Anche lì, motivi logistici, altri impegni, invasioni di cavallette.
Un punto della situazione lo fa un articolo comparso su Mow Mag, che parla di esplosione di bolla dei concerti. A contribuire, una serie di fattori.
Primo fra tutti, i prezzi dei biglietti sono saliti alle stelle - 37,7 euro in media nel 2023, con picchi che arrivano al +400% rispetto al pre-Covid. Nello stesso tempo, il potere d’acquisto è sceso: gli stipendi reali degli italiani hanno perso oltre il 10%. E intanto i concerti si moltiplicano, artisti emergenti vengono chiamati ad affrontare palchi complessi, spesso senza criterio. Troppa offerta per un pubblico stanco, impoverito, e più selettivo. La saturazione non è più un rischio: è già qui.
È una spiegazione che comprendo, ma che non mi convince fino in fondo. Circa un anno fa, alla notizia della reunion degli Oasis, milioni di fan in tutto il mondo hanno cercato di acquistare biglietti costosissimi, con un sistema di pagamento folle, affrontando code virtuali e prezzi esorbitanti.
Mi sembra ci sia qualcosa di più profondo.
Qualcosa di più profondo che ha a che fare con la relazione stessa che abbiamo con la cultura popolare e con la musica, che ne è dalla seconda metà del ‘900 l’espressione più pervasiva.
Ne parla, tra le altre cose, un articolo di qualche settimana fa di Spencer Kornhaber su The Atlantic, che definisce quella che stiamo vivendo l’era peggiore nella storia della cultura popolare.
Non è una tesi nuova. L’articolo parte da un incontro dell’autore con Ted Gioia, critico e pianista jazz che da tempo scrive di questo argomento. Gioia descrive l’evoluzione culturale in tre fasi: dalla “slow culture”, caratterizzata da esperienze artistiche profonde e riflessive, alla “fast culture”, dominata da contenuti rapidi e superficiali, fino alla “dopamine culture”, in cui la fruizione culturale è guidata dalla ricerca immediata di gratificazione.
In questa fase, piattaforme come TikTok e Instagram offrono stimoli brevi e ripetitivi, progettati per massimizzare il rilascio di dopamina e mantenere l’utente costantemente coinvolto.
Gioia sostiene che la “dopamine culture” non solo altera il modo in cui consumiamo contenuti, ma influenza anche la nostra capacità di concentrazione e il nostro benessere mentale. La costante esposizione a stimoli brevi e gratificanti può ridurre la nostra tolleranza per esperienze più lente e significative, portando a una cultura sempre più orientata alla distrazione e all’immediatezza.
Kornhaber ha, dalla sua, una posizione più sfumata. Non sostiene che la cultura pop stia morendo, né si rifugia nella nostalgia.
La sua tesi è più articolata: la creatività non è scomparsa, ma si trova a operare in un contesto strutturalmente sfavorevole.
Negli anni più recenti, spiega, a cambiare è stato lo scenario, più di ogni altra cosa. In primo luogo, è diventato più difficile identificare opere o momenti culturali capaci di creare attenzione condivisa. I segnali che riceviamo sono tantissimi, tutti diversi a seconda del target a cui apparteniamo: è effettivamente molto complicato per il pubblico mostrare entusiasmo nei confronti della novità.
Il risultato di questo scenario, dal punto di vista di chi la musica e la cultura pop la produce, è il rifugiarsi all’interno di formule già collaudate, più che esplorare nuovi territori. Ne aveva scritto qualche tempo fa Andrea Girolami in Scrolling infinito, in relazione all’ossessione dei produttori cinematografici mondiali di nuove edizioni di saghe già note.
Conoscere già un prodotto, almeno di nome, abbassa drasticamente il costo di ricerca e permette alle persone di scegliere in autonomia, senza doversi basare sui segnali della propria rete.
Il risultato è un una specie di disallineamento tra la disponibilità tecnica e produttiva e l’effettiva capacità del sistema di generare entusiasmo, connessioni, significati condivisi.
Tanti segnali, poca attenzione. Questo ecosistema crea un mercato, caratterizzato da quattro forze principali.
1. Stagnazione
Le industrie culturali sembrano aver imboccato un vicolo sicuro e senza uscita: sequel, remake, reissue, revival. Il rischio è calcolato, i margini lo impongono. È più facile monetizzare ciò che ha già funzionato che investire nel nuovo: così, la novità si riduce al packaging, alla variazione cosmetica. La creatività è più un’elaborazione semi-algoritmica, un’analisi dei dati, che un vero e proprio processo. Ne risulta un panorama omogeneo, prevedibile, dove il gesto artistico è spesso subordinato alla familiarità.
In un mondo di contenuti infiniti, a vincere è ciò che riconosciamo a colpo d’occhio.
2. Cinismo
L’inclusività, la diversità, i valori progressisti: tutti temi cruciali, ma sempre più spesso impiegati come asset di marketing più che come principi guida dell’opera. Le piattaforme e le major sembrano rispondere alla domanda politica con un’estetica standardizzata, che cambia la rappresentazione ma lascia intatte le strutture narrative, produttive ed economiche. Si chiama virtue signaling, e il pubblico lo percepisce: cresce così una sottile sfiducia, un senso di manipolazione emotiva.
3. Isolamento
La produzione culturale si è frammentata fino a diventare atomica. Il gruppo, la scena, il collettivo lasciano spazio al creator, all’autore solitario, spesso confinato in un’interfaccia o in una timeline. Anche il consumo si fa privato: si guarda da soli, si ascolta in cuffia, si legge su schermo. Il risultato è una cultura sempre più autobiografica e intima, ma meno corale. Meno spazi comuni, più confessioni in loop. Le opere si rivolgono a uno spettatore singolo, anziché a una comunità. L’effetto è quello di una solitudine saturata di storie.
4. Degradazione cognitiva (brain rot)
L’ecosistema dell’attenzione è diventato un deserto a scorrimento rapido. Scrolliamo, clicchiamo, saltiamo, spesso prima ancora di capire cosa stavamo guardando. La “dopamine culture” di cui parla Gioia è questo. Una specie di riflesso condizionato: lo swipe come tic nervoso, come fuga da ogni immersione. Le opere lunghe, complesse, stratificate, fanno fatica a trovare spazio, perché chiedono tempo, concentrazione, investimento.
Chi vince, in questo contesto?
Vince chi riesce a concentrare l’attenzione. Chi riesce a trasformare la cultura pop in contenuto e chi riesce a trasformare questo contenuto in un oggetto collettivo, in un punto di attrazione gravitazionale. Vince, per usare le parole di Andrea Girolami, chi sa generare monocultura: un prodotto che buca la coda lunga, che rompe il rumore di fondo e si impone come evento, rituale, codice condiviso.
Oppure vince una figura che Jarrett Moore, in un lungo video su YouTube, chiama Grifter.
Il grifter è un soggetto che funziona in un’era di nichilismo culturale. Un momento storico in cui, per tutte le ragioni che ci siamo detti un attimo fa, la cultura pop sembra aver perso la sua capacità di significare davvero. Le storie ci scorrono addosso, le immagini si replicano a catena, e spesso quello che resta non è un contenuto che ci ha cambiati o interrogati: è una reazione, se va bene, o semplicemente il video successivo.
Non è la fine della cultura, ma un suo svuotamento dall’interno: le parole vengono usate come slogan, i simboli si moltiplicano, ma faticano a tenere un significato stabile. Tutto è potenzialmente virale, ma quasi nulla dura. E più le piattaforme ci chiedono di produrre contenuti, più diventiamo abili a confezionare prodotti che suonano “giusti” ma spesso non dicono nulla.
In questo contesto, il grifter - Moore fa l’esempio di Mr Beast o Jake Paul - è qualcuno che sa benissimo come funziona il gioco dell’attenzione e lo sfrutta. Fiuta il momento: oggi parla di self-care, domani di mascolinità tossica, dopodomani di geopolitica. Non importa cosa dice, ma quanto riesce a essere condiviso.
Il grifter è un personaggio adattivo. Non costruisce pensiero, curva quello altrui per stare sempre nel flusso. È un performer, un generatore di estetiche. Moore cita la rielaborazione di Mr Beast di Squid Game: un prodotto artistico sulla spietata società sud-coreana che diventa un gioco per vincere quasi 500 milioni di dollari.
Questo tipo di figura prospera perché il pubblico stesso è cambiato: ci fidiamo meno, siamo più cinici, abbiamo visto troppi contenuti promettere rivoluzioni che poi si riducono a un drop (fuori ora) su Spotify o a una campagna pubblicitaria. Quindi preferiamo chi gioca il gioco con disinvoltura. Chi non ci prende in giro fingendo autenticità, ma ci intrattiene con un’imitazione credibile della profondità, che non richiede fino in fondo la nostra attenzione.
Ed è l’industria stessa della cultura, oggi, a essere grifter. È adattiva, reagisce agli stimoli, cerca di intercettare ondate, trend, meme virali, ondate di nostalgia. È comprensibile, come abbiamo detto prima: l’offerta è esplosa, ma la domanda è rimasta più o meno la stessa.
È sensato cercare di andare sul sicuro, costruire un’offerta algoritmica, basata sui dati: provo a catturare l’attenzione, poi a capitalizzare. Se funziona, bene; altrimenti proverò con il prossimo o la prossima artista, la prossima tendenza, la prossima ondata.
In un romanzo bellissimo che si chiama Lo stradone, ambientato in una Roma mai nominata ma mai così riconoscibile, Francesco Pecoraro parla di ristagno, l’identità culturale e sociale dell’epoca che stiamo vivendo.
Un ristagno esistenziale, di individui ormai completamente borghesizzati, privi di slancio e memoria storia. Ma anche un ristagno sociale e culturale, una condizione di immobilismo in cui la società sembra incapace di generare nuove idee o di evolversi, preferendo invece aggrapparsi a strutture e abitudini obsolete.
Pecoraro osserva come questa stagnazione si rifletta nell’urbanistica disordinata e nella perdita di significato dei luoghi, simboli di una collettività che ha smarrito la propria identità e direzione.
Nel Ristagno non ci inventiamo nulla, non sappiamo nulla e non ci interessa niente.
Nulla ci interessa davvero.
Nemmeno la musica, nemmeno i concerti.
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Illuminante come sempre