Ho scritto un libro: vi spoilero il finale
Ovvero: Turisti della realtà esce il 28 maggio per Edizioni Tlon. È un libro che parla di come il mondo si è trasformato in un contenuto per i social media
Ciao, questo è un numero molto particolare di questa newsletter. Lo uso per annunciare l’uscita del mio secondo libro, che si intitola proprio Turisti della realtà. Come il mondo finì per diventare un contenuto per i social e che uscirà il 28 maggio per Edizioni Tlon. Faccio una cosa insolita: ti lascio leggere l’epilogo. È un frammento finale, ma può servire da invito. Un modo per incuriosirti sul percorso che mi ha portato fin lì. Se vuoi evitare spoiler e darmi fiducia, puoi preordinare il libro qui. Prima di cominciare, un promemoria: se vuoi ricevere i prossimi numeri direttamente via mail, puoi iscriverti cliccando il pulsante qui sotto.
Epilogo
La parte inventata
Vivere bene è la rivincita migliore
Nell’estate del 1924, Francis Scott Fitzgerald e Zelda Sayre arrivano in Costa Azzurra. Sono scrittori: Fitzgerald ha già pubblicato un paio di romanzi, piuttosto famosi. Sono alla ricerca di stimoli, di tranquillità, di una vita diversa. È la Costa Azzurra dei ruggenti anni Venti, frequentata da Henry James, Joseph Conrad, Pablo Picasso, Salvador Dalí. Restano per un po’ di tempo a Hyères, in una villa dove Fitzgerald lavora al Grande Gatsby.
Qualche tempo dopo, si spostano a Cap d’Antibes, tra Cannes e Nizza. È qui che incontrano una coppia che finirà con l’avere un’influenza enorme sulle loro vite e sull’opera di Fitzgerald. Loro sono Gerald e Sara Murphy, abitano in una casa bellissima che si chiama Villa America. Statunitensi esiliati, mecenati e spiriti creativi, i Murphy sono una sorta di finzione – quella del Grande Gatsby – tradotta nello spazio fisico, tra feste che sembrano sospese nel tempo e intellettuali e artisti che attraversano le loro stanze.
Fitzgerald li osserva, affascinato e forse invidioso. C’è qualcosa, un nucleo scintillante e doloroso, che lo attrae e che presto tradurrà in letteratura.
In Tenera è la notte, quel fascino diventa una storia. Quella di Dick e Nicole Diver, i protagonisti del libro, la cui vita si intreccia con quella di Rosemary Hoyt, una giovane attrice che, all’inizio del romanzo, arriva in Costa Azzurra con la madre. È il 1925, e tutto sembra possibile. Rosemary vede Dick per la prima volta durante una giornata al mare: un uomo elegante, carismatico, di quella bellezza che affascina per la sua semplicità. Si innamora di lui, come si innamora del mondo che i Diver rappresentano.
Ma sotto la patina di perfezione, ci sono crepe profonde. Nicole, nonostante il suo sorriso impeccabile e la sua grazia, porta il peso di un trauma insopportabile: un abuso subìto dal padre. Dick, da parte sua, non è soltanto suo marito ma anche il suo medico. La loro relazione si fonda su un equilibrio instabile, una dinamica di potere che consuma entrambi. Dick, un tempo psicologo promettente e ambizioso, si trova sempre più risucchiato dal ruolo di terapeuta di Nicole: sacrifica la propria carriera e, lentamente, il proprio senso di identità.
Fitzgerald usa la storia dei Diver per esplorare i temi della decadenza morale, della fragilità umana e del peso corrosivo del privilegio. C’è una critica sottile ma penetrante all’idea che la bellezza e il lusso possano offrire una protezione contro il dolore. Come i Murphy, i Diver sembrano avere tutto. Ma ciò che si nasconde dietro la facciata è inesorabile: l’ombra del passato, la pressione delle aspettative, l’incompatibilità di desideri che si scontrano.
Non è un bellissimo ritratto. È un imbroglio, scrive Ernest Hemingway a Fitzgerald in una lettera. Fitzgerald, infatti, avrebbe tratto ispirazione da Gerald e Sara Murphy per costruire i personaggi di Dick e Nicole Diver. Ma nel processo, il riflesso si deforma: i Diver finiscono per somigliare più a Francis Scott Fitzgerald e Zelda Sayre che ai Murphy.
In un’intervista rilasciata al «The New Yorker», poi diventata anche un libro, Calvin Tomkins racconta la reazione degli stessi Gerald e Sara Murphy. Che non si riconoscono in quelle pagine, che pur riportano una serie di dettagli piuttosto precisi delle loro vite.
Nell’articolo, Gerald ricorda la presa di coscienza di quanto Fitzgerald avesse usato «ogni cosa che notava o che io gli raccontavo» negli anni in cui le due coppie avevano trascorso del tempo insieme tra Parigi e la Costa Azzurra, dal 1924 al 1929. Quasi ogni episodio, ogni conversazione, presenti nella parte iniziale del libro erano basati su un evento o su un dialogo effettivamente accaduto, seppur spesso alterato o distorto nei dettagli.
«Rifiuto categoricamente», dice Sara Murphy nel pezzo di Tomkins, «qualsiasi somiglianza con noi o con chiunque abbiamo conosciuto in qualsiasi momento».
Eppure, c’è un passaggio importante nell’articolo. Ed è la trascrizione di una lettera inviata da Gerald a Francis Scott nel 1935, un anno dopo la morte del figlio maggiore dei Murphy, Baoth. Scrive Gerald Murphy:
So ora che ciò che hai scritto in Tenera è la notte è vero. Solo la parte inventata della nostra vita – la parte irreale – ha avuto un senso, una bellezza. La vita stessa è arrivata e ha fatto disastri, lasciando cicatrici e distruggendo tutto… Quanto può essere brutale e devastante, e quanto spietatamente indifferente.131
La fine della ricerca, dell’inchiesta, è la constatazione che la realtà non esiste. Che ne esistono tante, tutte diverse e che tutte hanno uguale dignità se contribuiscono alla costruzione di un senso comune, condiviso. E lo fanno attraverso la costruzione di significati, di una simbologia che permetta di trasformare in azioni le diverse realtà che ognuno di noi vive.
Qualche tempo fa, parlavo di meme con un bravissimo produttore di meme. Mi ha detto che questo oggetto digitale, che punta alla riattribuzione di senso a immagini o significati condivisi, ha al centro il dirottamento della realtà. È attraverso quell’allontanamento che un meme costruisce significati, maneggia simboli, genera immaginario.
È questione di senso, e il senso lo troviamo solo nell’irreale. Il pericolo del turismo della realtà, di una società fondata sull’iperspettacolo, è proprio perdere il senso che è possibile trovare nella parte inventata. Presumere, in altre parole, che sia possibile vedere la realtà così com’è, maneggiarla, averla costantemente a disposizione da una visuale privilegiata. E che quella realtà possa continuare a scorrere senza sosta, in attesa di essere fruita da chi non ha nessun interesse specifico ad abitarla, ma solo una compulsione a consumarla, in attesa del prossimo stimolo.
È un’illusione che Tommaso Pincio descrive molto bene in Panorama, un libro che parla di un lettore alle prese con una relazione a distanza costruita su un social network – Panorama, appunto – che pretende una trasparenza quasi assoluta.
Avrebbe potuto scaricare romanzi, tornare a immergersi nella letteratura, ma non lo fece. Era troppo attratto dall’universo di minuzie e sciocchezze degli altri utenti. Riflessioni banali, a volte anche idiote, foto di animali domestici o di pietanze appena cucinate. Parole e immagini tanto intime quanto risibili. L’insignificanza suprema, eppure quell’universo inutile lo stregava. Avevano ragione a chiamarlo Panorama. Proprio di questo si trattava: dell’umanità fatta paesaggio.
Era come accendersi una sigaretta e affacciarsi alla finestra. E quando mai importa su quale paesaggio si affacci la tua finestra? Quale vista ti si offre? Potresti passarci comunque le ore. Anzi, più la vista è scialba e vuota, più ti incanti, perché in realtà non hai bisogno di guardare qualcosa, hai bisogno di perderti nel tuo sguardo.132
Ogni libro che parla di tecnologia impone una soluzione. Cioè tu stai lì e per una quantità importante di pagine problematizzi. Poi, che tu lo voglia o meno, è importante trovare una strada per fornire un’alternativa, uno stimolo per costruire una relazione più efficace con quel mondo digitale che hai appena descritto.
Spesso, ed è consigliabile, è meglio se questa soluzione è concreta, se riesci a fornire a chi legge una serie di indicazioni pratiche, che possano dare l’idea di come relazionarsi a quegli spazi una volta finito il libro.
Ora, io sono molto bravo a sollevare problemi; meno, temo, a indicare soluzioni, peggio ancora se concrete. Resto però fortemente dell’idea che l’unica vera via d’uscita al turismo della realtà sia il riconoscimento del fatto che non c’è alcuna realtà. Che abitiamo, insomma, sistemi di simboli, significati che danno un senso al nostro stare nel mondo e a quello che desideriamo e facciamo ogni giorno.
Essere turisti della realtà parte dal riconoscimento dell’idea che la realtà sia qualcosa che si possa afferrare, dominare, quantificare, monetizzare.
Non è così.
Se c’è qualcosa che, almeno a me, ha sempre dato indicazioni piuttosto chiare per affrontare questa consapevolezza è la letteratura. Che, secondo Giorgio Manganelli, che ho già citato in questo libro, è una reazione.
Lei scherza: solo la realtà è reale, il resto è la reazione che, non essendo reale, propriamente non esiste, tale e quale la letteratura che, come le dicevo, abbiamo uccisa.
È da questa presa di coscienza, secondo cui tutto è una reazione alla realtà e, di conseguenza, niente esiste davvero, che mi sembra si possa partire per dare tre brevi princìpi per quel movimento culturale di cui parlavo prima, che rivendichi l’irrealtà, la finzione, l’inutilità.
Sono tutti mutuati da diversi libri di Giorgio Manganelli. Mi è sembrato doveroso, alla luce dell’utilizzo della letteratura come chiave per comprendere il mondo, partire da quello che è probabilmente il più grande critico italiano di tutti i tempi.
Sono tre punti di partenza per recuperare un senso di irrealtà, una simbologia che ci permetta di andare oltre l’iperspettacolo dei social media.
Il valore dell’attesa
«Vi fu un tempo in cui un ritardo di dieci minuti gli dava un’ira sorda, come se fosse stato insultato. Ora vorrebbe ritardi di quindici, venti minuti».
I pensieri sono del protagonista del racconto trentatré della Centuria, la raccolta di cento piccoli romanzi fiume che Giorgio Manganelli pubblicò sul finire degli anni Settanta. Il protagonista di questo racconto lungo poco più di una pagina ama aspettare.
Con il tempo, «è diventato un appassionato dell’attesa». Ama avere a che fare con persone che arrivano in ritardo e proporre appuntamenti in luoghi riparati, come i portici. Questi spazi gli consentono di camminare a lungo, di assaporare i momenti di attesa, «con il lento piacere di un padrone che attende gli ospiti nel mezzo di un giardino».
Il turismo della realtà e la società dell’iperspettacolo sono ecosistemi che rifiutano l’attesa. Che rifiutano la possibilità di un tempo sospeso, non occupato, non pianificato o non riempito dal prossimo step o dal prossimo contenuto. E rifiutano anche la possibilità di attesa come rinuncia a dire qualcosa subito, a intervenire in un dibattito, a pubblicare un contenuto sul trend del momento.
Ecco, mi pare possa essere un punto di partenza interessante: recuperare il valore dell’attesa inteso come atto di resistenza, come occasione per rallentare e dare spazio al pensiero, all’immaginazione, alla semplice presenza nel momento. Recuperare il valore dell’attesa significa sfidare l’ossessione del tempo produttivo, restituire dignità ai tempi morti. Significa diventare proprietari degli angoli di strada, dei momenti, delle situazioni: essere, scrive Manganelli, «sempre a casa».
Accettare di non capire
In Concupiscenza libraria, raccolta di saggi e recensioni, un intero capitolo è dedicato alle recensioni di Manganelli dell’opera di Carlo Ginzburg. Il libro si concentra, in particolare, sull’abilità dello scrittore nell’intricare e districare storie, pur in opere dal sapore storiografico, come I benandanti e Storia notturna. Opere in cui, scrive Manganelli, l’autore ricostruisce un labirinto «lacunoso, continuamente frammentato, e dunque completato con audaci accostamenti».
È la vera rivelazione, la scoperta di Ginzburg, un razionale che ha scoperto che solo una certa forma di irrazionalità è intrinsecamente razionale.
Per spiegare questo passaggio, Manganelli cita l’antropologo James George Frazer, autore di Il ramo d’oro, un lungo studio su usi, riti, costumi e folklori delle culture allora cosiddette primitive. Ecco, il problema del lavoro di Frazer – che è pur considerato un testo enormemente importante – sta nella «coazione a spiegare».
Ovvero nel costante tentativo di interpretare, di voler capire. Nella volontà, potremmo dire, di riempire ogni spazio vuoto.
Questo passaggio mi ha fatto pensare alla nostra, di coazione a interpretare, a capire. Al diluvio di spiegazioni, di chiavi di lettura in cui ogni giorno siamo immersi nell’infrastruttura tecnologica che abitiamo. Alla rinuncia, quasi statutaria, alla non comprensione; oppure all’illusione, ancora, che il mondo sia lì, a portata di spiegazione.
È il secondo principio: accettare di non capire. Rinunciare, almeno ogni tanto, all’interpretazione.
La parte notturna della vita
In una raccolta di saggi pubblicati tra il 1969 e il 1987, Il vescovo e il ciarlatano, Manganelli esplora l’intreccio profondo tra letteratura e psicoanalisi, a partire dall’influenza determinante che l’incontro con lo psicoanalista junghiano Ernst Bernhard ha avuto sul proprio percorso intellettuale.
È in questo breve volume che credo di aver trovato l’ultimo principio, l’ultimo punto di partenza alla base di una relazione critica con l’infrastruttura del turismo della realtà.
Il primo articolo contenuto nel volume è un’intervista, frutto di una serie di conversazioni che Manganelli ha avuto con la giornalista Caterina Cardona. In questa conversazione, partendo proprio dalla relazione con Ernst Bernhard, parla di letteratura come di superstizione, intesa come gusto per la casualità, opposta alla razionalità e consequenzialità della fede. La letteratura, dice Manganelli, è superstizione e menzogna, perché «rinuncia a essere verità».
E rinunciare a essere verità passa per la consapevolezza che ciascuno di noi, tutto ciò che abbiamo intorno, non è mai una cosa sola. Che, in altre parole, non c’è modo di rappresentare in maniera univoca, esatta e razionale gli esseri umani, gli spazi che abitano, la vite in cui si trovano.
«Noi», dice Manganelli, «siamo continuamente altre persone e continuamente percorriamo nuove strade». È quello che il critico spiega di aver imparato proprio da Bernhard: che la strada giusta è fatta di un’infinità di strade sbagliate. «La risultanza, poi, può essere la strada giusta, ma noi non la conosceremo mai».
Ecco, in questo senso, la letteratura è notturna. Nel terzo saggio del libro, quello in cui racconta del rapporto tra Jung e la letteratura, Manganelli parla di quest’ultima come il sogno della società, la nevrosi, la parte notturna di quello che viviamo. Quella parte in cui facciamo i conti con ciò che accade, la reazione alla realtà; oppure, la rappresentazione di un’irrazionale che non possiamo capire o spiegare. La letteratura diventa così un modo per confrontarsi con l’invisibile, con ciò che sfugge alla razionalità e che, tuttavia, modella profondamente le nostre esperienze e percezioni.
Comprendere la realtà, in definitiva, passa dall’abbandonare la pretesa di catturarla, di addomesticarla, di illuminarla in qualunque momento.
In questo senso, accettare la parte notturna della vita vuol dire, in primo luogo, capire che ci sono cose che non possiamo spiegare. Ma che, tuttavia, anche attraverso la finzione e l’arte, possiamo processare, elaborare, come individui e come società.
Vuol dire, allo stesso tempo, rinunciare all’illuminazione costante di un sistema che ci vuole – per ragioni principalmente economiche – sempre spiegabili, etichettabili, riducibili a una serie di stimoli e contenuti.
E anche questo numero di Turisti della realtà è andato. Se vuoi preordinare il libro, puoi farlo qui. Puoi anche condividere la newsletter dal bottone qui sotto, iscriverti da quello ancora più sotto, scrivermi o seguirmi qui.